II

La letteratura nell’epoca arcadico-razionalistica

1. Il problema critico dell’Arcadia

Da tempo (e soprattutto – dopo alcuni spunti del Carducci[1] – per merito della solida revisione del Croce) può considerarsi superata la considerazione tutta polemica e tutta negativa dell’Arcadia e della letteratura di primo Settecento quale inizialmente la impostò il Baretti proprio in apertura del primo numero della «Frusta letteraria»[2] e quale – attraverso la severa condanna desanctisiana e la piú generale avversione romantica – venne divulgandosi in una opinio communis a cui si legano il persistente senso dispregiativo degli stessi nomi di Arcadia e di arcade, sinonimi di oziosa accademia, di evasione letteraria, di letterato senza impegni e senza serietà umana, civile ed artistica, e il pendant scolastico fra turgore secentistico e bamboleggiamento arcadico ugualmente privi di serietà e di poesia.

Soprattutto mercé l’interpretazione del Croce, che ricollegò l’Arcadia alla spinta rinnovatrice del razionalismo e valorizzò la conversione in esigenza di nuova educazione stilistica e di ripresa della continuità della tradizione e della lezione dei classici (e, in tale direzione, grazie anche agli essenziali studi del Fubini sulla critica arcadica e poi su tutto il fenomeno letterario arcadico), da tempo ormai la critica italiana considera l’Arcadia – e la sua letteratura – con una valutazione storicistica piú equa e concreta che – senza infatuazioni assurde e senza ignorarne i limiti storici e poetici – punta sul suo valore di un faticoso e spesso incerto ma centrale avvio, rispetto alla decadenza e crisi del barocco, di una letteratura che tende a tradurre in nuove forme di linguaggio e in nuovi modi di costruzione artistica i valori di una cultura avvivata dal razionalismo e dalle aspirazioni di una civiltà piú aperta ai fermenti e rapporti fra l’Italia e l’Europa, piú mobile, civile, socievole, anche se in genere tale volontà letteraria non può non apparire sproporzionata rispetto alle realizzazioni poetiche e alla imponenza della nuova cultura nel campo del pensiero e dell’attività storica, erudita, teorico-estetica, filosofica e civile.

Né, alla luce della individuazione di un fondo nuovo di cultura-letteratura – per il quale io preferisco denominare epoca «arcadico-razionalistica» la fase del primo Settecento – che tende sempre meglio a distinguersi e di fatto si distingue dalle condizioni della letteratura-cultura dell’epoca barocca, si potrebbe piú accettare la tesi di chi puntò prevalentemente su di un contrasto fra la volontà antibarocca dell’Arcadia e la persistenza in essa di forti elementi di continuità secentesca (la tesi soprattutto del Calcaterra), che là dove possono pur trasparire (distinguendoli in una articolata storia delle varie tendenze del Seicento) sono tuttavia sottoposti a una specie di «filtro» e di rinnovante subordinazione a piú forti e predominanti elementi nuovi, cosí come – in contrasto con la tesi del Toffanin – la stessa ripresa del classicismo si colloca, in Arcadia, in una nuova chiara funzione «moderna» graduabile, come vedremo, in forme assai diverse, ma non prive di centrali raccordi con istanze nuove, e non si può ridurre a puro «errore umanistico», a pura e semplice restaurazione di questo, a pura e semplice «autorizzazione» di timide novità sulla scorta dei classici[3]. Ed anche se le proclamazioni di tanti arcadi circa la totale vittoria sul «malgusto» del Seicento, sulla riuscita della affermazione del «buon gusto», sul recupero del senso della grande poesia del passato e sulla riapparizione della grande poesia nell’Italia moderna saran da giudicare nella loro velleitaria sproporzione rispetto ai risultati nuovi e all’effettivo sentimento della poesia nella critica ed estetica arcadica (con sbalzi forti fra il profondo sentimento di un Vico e magari di un Gravina, e il mediocre sentimento di un Crescimbeni), sarà ugualmente errato svalutare interamente e preliminarmente il senso e i risultati artistici dell’epoca arcadico-razionalistica come senz’altro falsi e fittizi.

Si tratta invece – come ho detto nel precedente capitolo – di cogliere storicamente il difficile percorso concreto della letteratura arcadico-razionalistica nelle sue velleità e possibilità, nelle remore e negli impulsi delle sue condizioni culturali ed artistiche, dall’impostazione dell’Arcadia all’esaurimento della sua funzione all’altezza dell’aprirsi della successiva epoca dominata dall’illuminismo.

Ma, se la fondazione dell’Accademia di Arcadia e il confluire in quella delle forze e istanze piú vive e spesso eterogenee dell’ultimo Seicento in relazione con il barocco, costituiscono un punto fermo e una data essenziale alle soglie del nuovo secolo, una rappresentazione per quanto sommaria della storia letteraria dell’epoca arcadico-razionalistica non può prescindere da una considerazione e illustrazione preliminare della zona degli ultimi decenni del Seicento che può denominarsi «prearcadica» per i suoi fermenti ed elementi, ibridi e sfrangiati, fra crisi del barocco, rinforzo di aspetti del barocco moderato, e tuttavia chiaramente già collegati ad istanze di cultura e di poetica che troveranno migliore chiarificazione e sviluppo – spesso contrastato e difficile – nella piú precisa zona arcadica, nelle sue discussioni e polemiche, nel suo concreto sviluppo di poetiche e di attività artistica.

Fermenti ed elementi che andrebbero recuperati piú minutamente entro le diverse situazioni delle regioni e delle città italiane[4] (poi piú collegate, se pur mai interamente livellate, dall’operazione di unità nazionale-letteraria dell’Arcadia), ma che qui possiamo soprattutto rilevare nei piú attivi centri di distacco dal barocco: la Toscana e la Lombardia.

2. Prearcadia toscana

Nella preparazione della poetica arcadica sono di preminente importanza l’attività e le esigenze antibarocche dei letterati toscani di fine Seicento.

La posizione del gruppo fiorentino, notevole per la sua compattezza e per la sua schietta contrapposizione al barocco, si avvantaggia della particolare sollecitazione di una cultura scientifica per cui il «buon gusto» (l’insegna sotto cui nascerà l’Arcadia) è già l’equivalente del buon discernimento, del buon criterio di giudizio di uno spirito critico esercitato nella scienza e tradotto in costume di vita e in mentalità generale. Spirito critico che troverà sempre maggiori ostacoli nell’involuzione del regime di Cosimo III e degli ultimi Medici, ma che in questo scorcio di secolo supera gli aspetti negativi di grettezza ed angustia della sua prudenza e si raccorda (fra l’attività scientifica e sperimentale degli eredi galileiani dell’Accademia del Cimento, quella linguistica e letteraria della Crusca e di altre accademie come quella degli Apatisti e quella della umanistica Università di Pisa) a forti esigenze di purezza e sicurezza linguistica, e alla forte ripresa dello studio esemplare dei classici antichi e di quelli italiani, sulla base di una tradizione che anche nel pieno del Seicento aveva rifiutato di questo forme piú nettamente barocche, sviluppando se mai le componenti piú classicistiche-rinascimentali e moderato-barocche, fin nella stessa fisionomia architettonica di Firenze.

Fra i letterati e gli scienziati di questo gruppo molti meriterebbero di essere ricordati: Lorenzo Bellini, anatomista e letterato, consigliere di giovani scrittori, autore della Bucchereide e di sonetti apprezzati in Arcadia; Alessandro Marchetti, la cui traduzione di Lucrezio, pubblicata dal Rolli a Londra solo nel 1717, circolò manoscritta fra gli amici e rappresentò il massimo dell’audacia di una cultura ancora incapace di passare interamente dal campo della scienza alla filosofia e alla religione[5]; Lorenzo Magalotti, la cui posizione originale di «filosofo morbido» legato a certe raffinatezze secentesche esigerebbe uno studio particolare, che fu accettato in Arcadia soprattutto per certe poesie descrittive (La sorbettiera, La profumiera, ecc.) e per alcune anacreontiche[6] che ambiguamente portano nel loro secentesco sensualismo raffinato come un sapore di sensismo avant-lettre.

Ma fra tutti i letterati di questo gruppo, per il valore di precisa e media indicazione di motivi prearcadici che affiorano entro una formazione moderato-barocca, spicca la figura del Redi per il particolare esito del contatto fra scienza sperimentale e nuova letteratura e per la costituzione di premesse che il Menzini in seguito svolgerà e offrirà al circolo romano da cui sorgerà l’Arcadia.

Chiara è anzitutto la funzione di maestro e di consigliere che il Redi ebbe per i piú giovani. Tutto il suo epistolario è pieno di consigli, di elogi, di censure ad altri letterati a cui egli raccomanda sempre l’«evidenza» e la «chiarezza», contrapponendole alla ridondanza e alla falsità e oscurità barocca[7]. E il linguaggio che egli adopera[8] corrisponde alla sua precettistica che insiste sempre sulle stesse fondamentali osservazioni: lo scrittore deve avere chiarezza, misura, ripudiare il concettismo e l’abuso di metafore, ma non deve perciò poi cadere in una correttezza senz’animo: sicché egli nulla piú odia di un sonetto «melenso» e «lonzo»[9], cioè stentato e floscio, mirando invece ad un brio chiaro, ad una «concatenata» scioltezza che dal seno di una specie di «barocchetto» spiritoso ed arguto tende ad una sempre maggiore agilità piacevole ed organica. Come potrebbero mostrare quei suoi sonetti anacreontici che, anche in sede di tematica, costituiscono un certo piú ibrido avvio al tipo di sonettismo miniaturistico ed edonistico dell’anacreontismo arcadico.

Chi piú direttamente tradusse simili esigenze in precise forme di proposta e attività letteraria fu Benedetto Menzini (nato a Firenze nel 1646 e morto nel 1704 a Roma, dove visse dal 1685, membro dell’Accademia Reale di Maria Cristina, socio dell’Arcadia e professore di eloquenza), la cui esperienza letteraria vale come sicuro incontro dei modesti risultati delle sue poesie e del suo programma letterario in una coerente direzione di gusto che media le posizioni della cultura fiorentina su una base piú esplicitamente letteraria e consapevole, essenziale alla nascita dell’Arcadia. Pure se meno ricco di motivi poetici e di forza immaginativa, rispetto ad altri suoi contemporanei, egli rappresenta infatti non solo il legame di cultura e letteratura fra l’ambiente fiorentino e il romano, ma addirittura l’anticipo di un accordo tra le opposizioni al barocco e le esigenze di una nuova poetica precisata in alcune sue opere, specialmente nell’Arte poetica (1688). Il disgusto per la poesia barocca vi si esprime in una chiara condanna che non resta fine a se stessa, ma postula un nuovo gusto poetico, il quale si rafforza nella consapevolezza della sua novità e soprattutto dell’importanza del suo sicuro contatto con la grande tradizione del passato[10]. Alla base di una poesia civile e socievole, che vuol reagire alla «lascivia» secentesca (lascivia morale e ornamentalismo letterario) e giustificare un accordo fra letteratura, cultura ed erudizione, tra animo poetico e morale, egli pone l’ideale del letterato «savio», consapevole della sua intimità e della sua relazione con gli altri.

Ideale morale e letterario che culmina nella «prudenza» del «buon gusto» e del «buon uso».

E se questo ideale di «saggezza» e di «prudenza» è spesso il centrale tema della sua poesia (esplicitamente nelle canzoni e nella Etopedia, implicitamente nei sonetti), esso informa tutta la sua educazione letteraria, la sua poetica del «buon gusto», che è insieme «buon uso» di ragione e natura[11].

E su tale posizione di misura il Menzini motiva la sua polemica antibarocca, la sua parodia del fraseggiare secentesco, tanto piú riuscita in quanto si stacca entro un ritmo agevole e chiaro, come nella satira IV:

Via seguitiam; col fulmine tremendo

mandò in pezzi di Flegra la montagna

e ’l baratro a’ giganti aperse orrendo

Giove, che spunta ancor con le calcagna

dell’auree stelle i solidi diamanti,

che son cerchi a cui il ciel fa da lavagna.

Oh che bel fraseggiare, o che galanti

pensieri! Aspetto ancor che sien le stelle

a sferza d’armonia palei rotanti...

Polemica e parodia che si ritrovano nel canto IV dell’Arte poetica, dove il Menzini oppone l’organicità del componimento alle slegate sequenze barocche di «concetti» particolari e allo scoppio «spiritoso» finale:

Né men la chiusa cercherai, che punga

nel fin d’ogni tua strofe; ma il concetto

nobile e grande alle mie orecchie giunga...

Per questo dite voi che ’l buon Petrarca,

Costanzo e ’l Casa dell’Italia onore,

a mensa stanno mediocre e parca.

Ma voi bevete le stemprate aurore,

polverizzate stelle; e liquefatti

i cieli, che d’ambrosia hanno il sapore...

Alla parodia corrispondono i precetti della «buona poesia», collegati all’esempio essenziale del Petrarca (a cui il Menzini riconosce lo stile «puro e terso», la capacità di un «parlare piano» e un «verseggiar gentile») che campeggia nel I libro dell’Arte poetica, quale esempio perpetuo di «dolce eloquenza» e «ingenua grazia»:

Dolce d’ambrosia, e d’eloquenza un fiume

scorrer vedrai dell’umil Sorga in riva

per quei, ch’è dei poeti onore e lume.

Né chieder devi ond’egli eterno viva;

perché ’l viver eterno a quel si debbe stil

puro e terso che per lui fioriva...

Perché le Grazie semplicette e nude

mostrarsi al maggior tosco; e quei comparve

cigno gentil, ch’ogni paraggio esclude.

L’espressione poetica del Menzini nasce cosí da un mediocre, ma sincero amore per le cose «belle e buone», per una realtà piacevole se pur modesta, da spettacoli naturali e distensivi come quelli delle quattro stagioni e dal godimento ad essi connesso[12]. Sicché il vero piano della sua esilissima esperienza poetica, che interessa come avvio significativo alla tematica e alla poetica arcadica, è quello di un idillismo soave, tenero, che tende a risultati di semplice eleganza, di sviluppo piacevole, nitido e organico. La misura piú adatta alla realizzazione di questa aspirazione ad una poesia semplice ed elegante è soprattutto il sonetto; esso non permette di abbandonarsi a divagazioni, offre la possibilità di dar prove di misura e di perfezione stilistica allo scrittore fine e saggio che «per lung’uso ed arte / via piú la mano e piú l’ingegno affina»[13].

Ed è in questo schema metrico che il Menzini raccoglie il frutto migliore e piú tardo della sua esperienza letteraria, contribuendo con i suoi sonetti pastorali-anacreontici a precisare un tipo di espressione poetica congeniale alle esigenze piú intime dell’Arcadia.

La facilità piú discorsiva e prosastica delle Satire, delle Elegie, dei poemetti morali (Etopedia, Del terrestre paradiso)[14] si commuta, nei sonetti pastorali, in un delicato tono di confidenza e in capacità di svolgimento articolato e preciso. Ne è esempio tipico il sonetto in cui egli espone la sua aspirazione ad ottenere il lauro poetico («Dianzi io piantai un ramuscel d’alloro»), nel quale risultati di scarsa forza espressiva fanno tuttavia risaltare qualità di cura stilistica e interessano come segni di un nuovo atteggiamento di gusto e come tentativo, sia pur mediocre, di ricostituzione di discorso poetico; tentativo che corrisponde al bisogno di portare nel linguaggio quell’impressione di cose reali e naturali che la scienza toscana nel secondo Seicento aveva tanto studiato.

In questa direzione appare particolarmente notevole il sonetto Presagi di tempo piovoso tanto prediletto dalle antologie ottocentesche per il suo tenue realismo classicistico:

Sento in quel fondo gracidar la rana,

indizio certo di futura piova:

canta il corvo importuno, e si riprova

la foliga a tuffarsi alla fontana.

La vaccherella in quella falda piana

gode di respirar dell’aria nuova;

le nari allarga in alto, e sí le giova

aspettar l’acqua, che non par lontana.

Veggio le lievi paglie andar volando;

e veggio come obliquo il turbo spira,

e va la polve, qual paleo rotando.

Leva le reti, o Restagnon; ritira

il gregge agli stallaggi; or sai che quando

manda suoi segni il ciel, vicina è l’ira.

In esso si avverte che il finale, per quanto coerente a un certo tipo di «saggezza» pastorale, è piuttosto insipido e fiacco; però il quadretto in cui è descritto il prepararsi del temporale attraverso i segni di turbamento e di piacere della natura e degli animali è davvero cosa non spiacevole ed interessante per la formazione della poetica arcadica per il tentativo, in esso, di un nuovo – o rinnovato – accordo fra cose e parole, fra ritmo della realtà piú concreto e modesto e ritmo poetico chiaro ed organico, elegante e sobrio.

Le qualità di chiarezza, di «prudenza», di regolarità del discorso poetico si possono ravvisare anche nell’altro piú illustre rappresentante di questa fase prearcadica fiorentina: Vincenzo Filicaia (Firenze 1642-1707), socio dell’Accademia della Crusca e di quella Reale di Maria Cristina in Roma, membro dell’Arcadia e «nobiluomo» attivamente impegnato anche nella vita politica: fu, infatti, senatore e governatore di Pisa e Volterra.

Il Filicaia dell’ambiente fiorentino interpretò l’aspirazione piú ufficiale e piú retorica a una lirica alta, al cosiddetto «fare grande», alla celebrazione solenne di avvenimenti storici e grandiosi, alla ripresa di Pindaro e del Petrarca delle canzoni civili e religiose; ma il solenne, il nobile, magari il «sublime» dovevano nascere su di una base di equilibrio e di prudenza, sostenersi con uno studio attento dei mezzi espressivi, con un recupero di originalità entro il controllo della tradizione e sottrarsi cosí all’uso «scorretto» che ne aveva fatto il barocco. A tale compito ben arduo si dedicò il Filicaia, la cui enorme fortuna in Arcadia e in tutto il Settecento si spiega non solo nello scambio fra desideri e realtà, cosí forte in un’epoca bisognosa di sentirsi «rinnovata», ma anche in quel suo riconoscimento di «nobiltà» e di «chiarezza», di altezza solenne e di linearità, di linguaggio alto e pur chiaro, comprensibile, comunicabile.

Se dunque non sarà certo il caso di opporre una rivalutazione del Filicaia in sede di valore poetico alla «esecuzione capitale» del Croce[15] e alla giusta squalifica della sua eloquenza storica e patriottica cosí esteriore e inconsistente, si dovrà però precisare (ciò che qui ci interessa) la sua importanza nella formazione della poetica arcadica e la sua sostanziale omogeneità con i caratteri e con le esigenze letterarie che la cultura fiorentina di fine secolo offriva all’Arcadia.

La sua eloquenza infatti, a ben guardare, non è tanto caratterizzata da un atteggiamento convulso e gesticolante, clamoroso e turgido, secondo la definizione del De Sanctis[16], quanto, viceversa, da una sostanziale misura, da una ricerca di simmetria, di ordine, di articolazione chiara e conclusa, di composizione disegnata piú che colorita, di chiarezza anche nell’enfasi, di ragionevolezza anche negli impeti del resto sempre piuttosto deboli e retorici.

Si pensi alla stessa celebre canzone Sopra l’assedio di Vienna come esempio della costruzione filicaiana nelle sue forme piú solenni e impegnative. E si verificherà il predominio in essa di uno schema regolare e misuratamente complesso, svolto secondo un «concetto» centrale e generale (e la contrapposizione di un «concetto» generale svolto in articolazioni particolari a quello saldamente collegate, di fronte alla selva di «concetti» singoli e disordinati e con effetti improvvisi e puntuali, è motivo insistente dell’Arte poetica menziniana), grandioso almeno nelle sue intenzioni, ma chiaro, equilibratamente concluso e suddistinto nelle sue varie conseguenze.

Donde una grandiosità misurata e dignitosa, l’impressione di un edificio ufficiale in cui il dinamismo dell’enfasi vaticinante, dell’attacco volutamente energico, si regolarizza facilmente in linee ampie e simmetriche, sí che le stesse ripetizioni di interrogativi retorici, come nella prima strofa, o di movimenti di meraviglia dolente (il «mira» che apre nella seconda e terza strofa una simile serie di descrizioni e dimostrazioni) o di moduli di rassicurata speranza (i «so» ripetuti della quarta strofa) sono accuratamente, razionalmente disposte e calcolate nei loro effetti di rilievo. Con una simmetria e un ordine che domina e precisa anche le strofe della seconda parte della canzone, articolando i temi di stupore dolente, di falso timore nell’ipotesi di una vittoria turca, di incredulità, di speranza e di certezza nell’aiuto divino, di gioia nella visione della vittoria e della concordia dei principi cristiani (temi tutti scontati in una posizione sentimentale di saggezza e di sicurezza senza ansia e senza dramma) entro movimenti la cui diversa direzione non toglie la sostanziale coerenza di linea, la profonda monotonia, la ricerca di disegno piuttosto che di colore, di chiara composizione, solenne piú per l’ampiezza, dignità, regolarità delle linee, per le loro volute complesse, ma mai spezzettate ed incalzanti, che non per una forza di impeti immaginosi.

Cosí come il linguaggio riproduce dello schema l’essenziale modulo di dignità eletta, moderatamente insaporita di echi biblici e petrarcheschi, e la volontà di «sublime», priva di una vera radice di impeto (piú sincera nell’infecondo e incompiuto scatto del Guidi), si riduce all’atteggiamento ispirato e vaticinante del lirico «alto», composto però in un gestire controllato e monotonamente dignitoso: e ugualmente la sua eloquenza, lontana ormai dal vero turgore barocco (anche se con inevitabili parziali residui moderati-barocchi), è sempre inscritta in moduli chiari, ordinati, che meglio corrispondono alle stesse caratteristiche dell’animo e al costume del Filicaia.

Animo e costume intonato ad una saggezza composta, e che semmai ha una sua grigia e scialba spiritualità meditativa e pensosa non priva, entro le condizioni di un costume signorile e ufficiale, di una tenue malinconia, di una vena elegiaca e modestamente affettuosa che si esprime piú direttamente nella discorsività pallida e chiara, sommessa e diluita di certi componimenti familiari e meditativi, in cui (in un ritratto completo del Filicaia che qui viene solo accennato) si potrebbe ritrovare la presenza di una ispirazione minore e piú intima.

Come nei sonetti per la morte di Camilla Filicaia, in cui il ricordo affettuoso si fa piú vivo proprio nel rilievo di qualità umane-socievoli coerenti agli ideali filicaiani di saggezza, di autodominio, di compostezza spirituale («e tacer saggio e ragionar cortese / e bontà cauta e libertà prudente»).

Ma anche in questi componimenti, dove la «nobiltà» è a suo modo piú semplice e spontanea, è pur sempre presente l’applicazione di quelle qualità letterarie che corrispondono alle aspirazioni anche morali piú intime del Filicaia e che costituiscono il frutto dell’educazione prearcadica fiorentina. Sono queste stesse qualità, come abbiamo detto, a conferire anche alle costruzioni piú ufficiali del Filicaia il loro carattere piú esemplare per la poetica arcadica: la quale in quell’opera accettava la lezione sperata di un possibile accordo realizzabile fra nobiltà e chiarezza, fra «sublime» e regolarità stilistica e linguistica, riconosceva la riconquista di una zona poetica che la prima Arcadia non poteva lasciare al barocco senza rinunciare alla sua pretesa di completo rinnovamento, di ripresa di tutte le maniere dei classici, di restituzione anche della poesia «grande».

3. Prearcadia settentrionale e meridionale

Nell’Italia settentrionale non vi era un centro di cultura naturalmente antibarocca come quello cosí preciso di Firenze, ma lo stesso Redi riconosceva l’esistenza fuori di Toscana di letterati illuminati da una nuova esigenza di chiarezza e serietà, di «saggezza» umana e letteraria, legata a condizioni di rinnovamento culturale e morale anche se non cosí precise e propizie come quelle della cultura toscana[17]. Tra questi letterati è da annoverare in primo luogo Carlo Maria Maggi (1630-1699) che passò tutta la vita a Milano (o nella sua villa di Lesmo) e fu professore di lettere greche e latine alle scuole Palatine e segretario del Senato[18].

Nel caso del Maggi il legame fra cultura e letteratura è soprattutto rappresentato da un forte interesse classicistico e da un moralismo religioso, che ha un fondamento particolare nel suo concreto buon senso, e che si traduce in maniera piacevole ed efficace nel teatro (su cui torneremo piú avanti) e nella poesia in «meneghino», in cui l’animo chiaro e pensoso dell’illustre signore si esprime con piú abbandono, nei festosi colloqui col nipotino, nelle descrizioni della sua villa e del suo dolce far niente nelle vacanze:

Sont a Lesma sol solett

par fà i cunt cont i Massé;

bella vista, e loeugh quiett

da descorr cont i pensé.

La mattina sto giò tard

fin che ’l Sò me ven adoss,

fin che ’l Coeugh moeuv i leccard,

e son stracch de stà in reposs.

A fà i cunt con i Ficciaever

no me casc parché g’ho pairo,

e sto in legg cuntand i traver,

e fagand castij in l’airo.[19]

Fondo di bonarietà e di intimità, di amore per la vita, di saggezza tranquilla, ma non priva certo di schietto fervore morale. A questo fervore, sorretto anche da una particolare educazione di filosofia morale[20], legato anche ad una nuova vitalità in una Milano che si va facendo diversa da quella del primo Seicento, si accompagna una capacità istintiva di espressione decisa e particolarmente efficace non solo nelle forme popolari e scherzose, ma proprio in quelle rime a fondo morale e religioso, o amorose spirituali, in cui il programma di una nuova poesia si appoggia ad una attenzione particolare alla realtà dell’animo, ad un vivo senso della vita spirituale.

Sicché anche lo stile rivela nelle forme a volte quasi rudi e disadorne, ma ferme e decise, un’interna sicurezza che i contemporanei dovevano sentire come presenza di un nuovo contenuto spirituale piú serio e come modo espressivo nuovo e per loro davvero rivoluzionario.

Si pensi al sonetto Il vero saggio qual sia, con le sue forme scarne e brevi, con la sua sobria discorsività, con il suo ritmo serio e scandito, con i suoi versi poco armonici, ma soprattutto poco lambiccati e lontani da ogni lusso di immagini e di suoni:

Delle umane dottrine il miglior nervo

è il conoscer che l’uom nell’ombra siede.

Finché l’ingegno al suo fattor non riede,

sempre da sue culture ha ’l frutto acerbo.

L’occhio di sua virtú fa piú riserbo,

se abbassando le ciglia, al lampo cede.

Chi mira in alto piú, quegli men vede:

la piú cieca ignoranza è del superbo.

Dio, gran padre de’ lumi, anco al piú colto

spirto, nel tenebroso uman viaggio,

mostrò ’l tergo talor, ma non il volto.

Chi sue tenebre vede, ha ’l piú bel raggio.

Chi crede saper piú, quegli è piú stolto.

Chi sa di non saper, quegli è piú saggio.

Manca qui quella fusione e quell’articolazione del componimento cui tende la poetica arcadica; ma in questo procedere a gruppi di due o tre versi al massimo, in questa espressione poco armonica c’è pure l’essenziale presenza di una ripresa di discorso poetico fuori della maniera secentistica, di un nuovo accordo di parole e realtà sentimentali.

E un tentativo assai interessante (anche se meno riuscito) di accordare la nuova materia sentimentale e spirituale con la melodia di eredità barocca si può vedere nelle poesie etico-religiose «per musica» come Desiderio di sapere se i peccati sian perdonati e In desolazione di spirito, esempio notevole, quest’ultimo, di una sensibilità morale e religiosa tutt’altro che superficiale ed imposta dall’esterno:

Dite, dov’è il mio Dio?

Egli era nel cuor mio,

ma non v’è piú.

Ahi, sdegnerà tornar,

che nol seppi guardar

quando vi fu.

Sconsigliato non sol, ma ingrato fui.

Non state a lusingarmi,

non vo’ per consolarmi

altri che lui.

Gridate, che ho torto,

che il torto mi viene:

non voglio conforto,

ma voglio il mio bene.

Ma come? Oimè: dir voglio?

Questa che par fidanza, è forse orgoglio...

In complesso la poesia del Maggi appare come una delle esperienze prearcadiche piú notevoli e interessanti, anche se la sincerità del sentimento religioso e morale rifiutando soluzioni troppo facili e scorrevoli provoca come delle dissonanze e sfasature, quasi un certo claudicare del ritmo che solo a tratti raggiunge felici movimenti di ispirata e limpida tensione, e il linguaggio poetico è pure, nella sua chiarezza e spregiudicatezza, incerto spesso tra forme letterarie e parlate e non evita nella sua decisa semplicità qualche aspetto di rozzezza e di goffaggine.

Ma in questa prima fase di reazione al barocco nel Nord-Italia non si dette eccessiva importanza alla difficoltà di quello stile, di cui si ammirò la chiarezza, la presenza in esso di motivi spirituali e di una analisi dell’anima attenta e fervida, prova sicura della rottura dell’aborrito malgusto e della insincerità e dispersività barocca: mentre piú tardi, come vedremo, una lunga discussione sul valore esemplare del Maggi portò, nello sviluppo concreto delle esigenze stilistiche arcadiche, a riconoscere sí la forza nuova di «nodi passione», ma il carattere «invenusto» e arcaico dello stile.

Alla figura del Maggi i contemporanei avvicinarono sempre quella dell’altro scrittore lombardo Francesco De Lemene (Lodi 1634-Milano 1704), in una ideale coppia di ribelli al malgusto secentistico.

In realtà la vicinanza fra Maggi e De Lemene è assai limitata e manca senz’altro nel De Lemene quella piú forte concretezza umana e morale che è tipica del Maggi, cosí come piú complicato e ibrido è il suo distacco dal barocco.

La base comune è rappresentata dalla coincidenza della «conversione» letteraria, anche se nel De Lemene il passaggio dalla tematica erotica barocca a quella religiosa teologica si risolse soprattutto in una questione di contenuti astratti, a cui si aggiunge una variazione di dolcezza da schietta sensualità a morbido vagheggiamento di riti e a motivi religiosi, raddolciti e ridotti in proporzioni minuscole e amabili.

Sicché la fortuna del De Lemene in Arcadia si basa su due motivi: l’omaggio convenzionale ad una poesia religiosa e a volte addirittura fondata su proposizioni teologiche (com’è il fastidiosissimo libro Dio)[21], e simpatia arcadica per le forme melodiche che nel De Lemene venivano dissociate dai temi erotici e rinforzate (ma quanto esteriormente e falsamente!) dall’applicazione fattane a temi religiosi.

Il corso della piú matura e prearcadica esperienza lemeniana è tutto legato cosí a un essenziale problema di accordo fra la sua vocazione di canto e l’elemento religioso, adoperato prima a dare forma piú regolare e solenne alla sua poesia, poi adattato alle stesse forme melodiche del madrigale e della canzonetta.

E in questo senso la sua opera ha una notevole importanza per l’influenza, in direzione melodica, che poté avere su alcuni scrittori dell’Arcadia matura (in particolare il Rolli), e, piú ancora, come segno di uno dei punti piú delicati del passaggio da barocco ad Arcadia: il canto, la melodia, rifiutati come semplice «piacere degli orecchi» e come espressione di sensualità, ma ripresi o in forza di nuovi temi «seri» o piú genuinamente sviluppati con una nuova intima giustificazione secondo una sensibilità animata, vivace e libera, lietamente edonistica, entro un nuovo gusto di concisione e di evidenza miniaturistica.

Il De Lemene cercò appunto di salvare il canto applicandolo a «temi seri» e creduti di per sé capaci di giustificare in maniera nuova la melodia madrigalesca e canzonettistica. In tal senso l’amore per lui dei contemporanei era concessione ad una inclinazione retorica di grandiosità religiosa e piú ancora risposta ad una interna vocazione di canto che non aveva ancora trovato in tutti la sua vera soluzione coerente al piú intimo spirito arcadico e veniva provvisoriamente soddisfatta dall’equivoca, morbida musicalità della celebre raccolta di rime melodico-religiose, il Rosario di Maria Vergine.

In quella raccolta il De Lemene riduceva attentamente le forme madrigalesche e canzonettistiche in quadretti, in miniature preziose, nelle quali prevale una sostanziale ambiguità tra religiosità e soluzioni di sensibilità molle e rugiadosa, in cui il vibrare della melodia e il gesto delle figurine si associano in atteggiamenti languidi e senza alcun impeto religioso. Come in questa Rosa senza spine:

Fermati, non toccar. Gesú dicea

di Maddalo a la bella,

che i sacri piè volea baciargli, ed ella

a Gesú rispondea:

fermati, non toccar? Perché, mio Dio,

togli il baciare a l’umil labbro mio

coteste del tuo piè rose divine?

Fermati, non toccar? Non han già spine?[22]

Eppure è proprio in queste «rose» senza freschezza che si può verificare la tendenza piú interessante di questo letterato nel passaggio al gusto arcadico-rococò attraverso svolgimenti e riduzioni di moduli di origine secentesca nella linea di una sensibilità melodica piú «barocchetta» e misurata. Passaggio di cui del resto potevano già dare qualche lontano annuncio le poesie piú giovanili (sonetti madrigalistici e cantate) dove la melodia sgorgava piú abbondante e colorita e il gusto secentesco vi prevaleva come lessico e come trama canora, ma c’era anche l’esempio di un canto non privo di una generale misura che lo distacca dal «barocco-turgido» quale lo sentivano gli arcadi, e dalla melica barocca come puro «piacere degli orecchi».

Dalla lettura di sonetti come La violetta e il Piacere di solitudine o dalla lettura delle cantate «a una voce sola» si può capire come i lettori arcadici trovassero nel De Lemene un esempio di costruzione melodica da recuperare nelle loro poesie entro un accordo piú intimo fra valore melodico, figurativo e sentimentale, fra tenerezza canora e chiarezza di linguaggio[23]. E si rilegga in tal senso il Piacere di solitudine che poté suggerire qualche spunto al Rolli del Solitario bosco ombroso:

Questo bosco romito, ove s’asconde,

fuggita dai tumulti amabil pace:

questo placido rio, che fra le sponde

non s’ode mormorar, ma passa e tace:

questo dal sibilar d’aure o di fronde,

dal garrire importun d’augel loquace

or non rotto silenzio, o qual m’infonde

dilettevol ribrezzo, orror che piace!

Fra quest’ombre solingo e l’aer fosco,

una pena c’ho in sen voglio far chiara,

che fedel segretario io lo conosco:

ma no; sia muta la mia pena amara,

e non senta il silenzio, il rio, ne ’l bosco

turbarsi dal mio duol pace sí cara.

Personalità piú risentita e non priva di piú intensi fermenti poetici è quella del Guidi, la cui poesia ottenne il riconoscimento generale degli arcadi (dal Maffei al Muratori, dal Martello al Crescimbeni e soprattutto al Gravina), i quali vi ravvisavano una testimonianza concreta a favore della fantasia e del «genio poetico»; valutazione però che trova precisi limiti nel relativo isolamento in cui la poesia guidiana rimase nello sviluppo maturo della lirica arcadica e nel giudizio di singolarità inimitabile, e di eccezione non priva di rischi di ricaduta nel turgore barocco, che ne dà il Crescimbeni, nel dialogo IX della Bellezza della volgar poesia e nella Vita del Guidi da lui scritta.

Alessandro Guidi, nato a Pavia nel 1650, fu ammesso sedicenne alla corte di Ranuccio II Farnese duca di Parma. Una raccolta di versi e un melodramma, Amalasunta in Italia, gli diedero larga notorietà; onde Cristina di Svezia, nel 1685, lo invitò a Roma, dove, associato all’Arcadia, con le sue Rime celebrò gli intenti e le consuetudini dei suoi fratelli «pastori», la memoria di Cristina, la gloria di Roma, morendo in quella città nel 1712.

Non è facile ricostruire la precisa via di evoluzione del Guidi nell’ambiente parmense: comunque le Poesie pubblicate nel 1671 a Parma sono ancora fortemente legate all’ambiente tardo-barocco e perfino ad elementi marinistici, come dimostra chiaramente un gruppo di sonetti quali: Amante con chioma finta bionda incipriata, Capelli arsi da un fulmine mentre erano lavati da bella donna, ecc. Mentre in altri componimenti l’interesse del Guidi va a temi morali ed eroici, alla esaltazione della poesia come commemoratrice di personaggi illustri su di una direzione di risentimento eroico-morale, epico-sdegnoso, che è certo la direzione piú originale e sincera di questa personalità piú velleitaria che realizzata, ma certo assai interessante e tesa.

Ciò che piú colpisce in queste poesie piene di rozzezze, di arditezze, senza esito, sono appunto certi inizi piú intensi e piú impetuosi, echi di una commozione piú sincera anche se realizzata in forme retoriche e farraginose, specie sul tema della poesia che dall’elogio di tombe eroiche sollecita a nuove, generose azioni o su quello delle grandiose rovine:

Da le moderne e da l’antiche tombe

polverose reliquie in Pindo chiama.

E de gli eroi a suscitar la fama

di guerrieri concenti arma le trombe...[24]

Moiono i marmi ancor, fredde ruine

copron le porte dell’egizia Tebe,

e van gli aratri de l’ignuda plebe

a tormentar le maestà latine.

Obelischi svenati, arsi Colossi

ne’ liquidi dirupi il Nilo affonda,

e divorando i monumenti l’onda

alla barbara Menfi affoga gli ossi.

È del 1683 (quando egli oziava in Roma alla corte di Maria Cristina) la canzone in morte del barone d’Aste, che segna il passaggio del Guidi da un confuso clima fra ultimo barocco e irrequieta tensione di nuova poesia alla piú chiara adesione al «buon gusto» prearcadico.

Il motivo della celebrazione degli eroi ritorna qui piú limpido in una costruzione persino eccessivamente regolare e misurata, rapida e lineare; come se – a contatto con le esigenze portate avanti dai prearcadi toscani – il Guidi abbia fatto un estremo esercizio di dominio delle proprie forze naturalmente dispersive, cosí come avviene anche nella canzone Il Tevere o nella canzone all’Orsi, in cui si duole che non si scriva piú di temi eroici.

Ma questi temi mal si adattavano a quella costruzione troppo schematica e rapida e presto quell’esercizio di «buon gusto» fu a sua volta superato, con una maggiore – seppure piú equilibrata – ripresa di impeti immaginosi, nel celebre, quanto povero, Endimione e nelle nuove poesie che il Guidi scrisse tra il 1685 e il 1700, prima come poeta ufficiale della corte di Maria Cristina e poi come celebratore delle cerimonie arcadiche, alle quali si aggiunsero infine le sei Omelie di Nostro Signore Papa Clemente XI (1703-1709), ultima sua fatica tutta retorica.

Le poesie continuarono con le canzoni dedicate a Cristina o ispirate dalla sua morte, e poi con quelle ispirate dalle cerimonie arcadiche, in cui il Guidi mostra una progressiva chiarificazione della sua poesia e un progressivo miglioramento delle sue possibilità costruttive, rifiutando però l’eccessiva secchezza e schematicità delle poesie del 1683.

In queste nuove composizioni il Guidi adottò anche uno schema metrico (la celebre canzone libera) di cui molto si vantò e che il Crescimbeni nettamente condannò per l’eccessiva «originalità». E se non si può dire che anche in questa nuova struttura metrica il Guidi abbia raggiunto quegli effetti che se ne riprometteva, indubbiamente a quello sforzo di novità di costruzione corrispose, in quelle ultime canzoni e nei loro momenti piú intensi, una capacità di svolgimento maggiore che nelle produzioni precedenti.

Le canzoni piú interessanti (non certo la troppo celebre e farraginosa Fortuna), che offrono brani piú suggestivi e notevoli, sono comunque quelle scritte per cerimonie ufficiali dell’Arcadia romana, il cui tema ricorrente è, oltre ai motivi delle tombe illustri e della poesia suscitatrice di azioni gloriose e memorie eroiche, quello di una nuova civiltà pacifica e rinnovatrice che si riallaccia alla grandezza romana antica per opera dell’Arcadia e della potenza papale. Ma il tema che solo possiede un suo vigore suggestivo è quello delle rovine e delle memorie dell’antica «maestà latina», mentre scarsamente operante resta il motivo idillico-pastorale raccordato alla velleitaria esaltazione della nuova Roma papale ed arcadica. La grandezza dell’antica Roma guerriera e dominatrice, circondata tuttavia da un’aura grave di malinconia e di rimpianto, s’impone nelle canzoni quali Gli Arcadi in Roma, Gli Arcadi sul colle Palatino, I costumi degli Arcadi, ecc.: soprattutto nella prima in cui la suggestione delle rovine romane si addensa in un’atmosfera di nostalgia commemorativa, di funebre meditazione. Il sentimento nostalgico-epico, la funebre meditazione grandiosa sulla rovina che accora quanto piú è grandiosa e che d’altra parte conserva l’orgoglio dell’antica grandezza e suscita un insieme di ammirazione, di rimpianto, di rispetto commosso, han trovato qui un’espressione piú continua e precisa:

Mirate là la formidabil ombra

dell’eccelsa di Tito immensa mole,

quant’aria ancor di sue ruine ingombra!

Quando apparir le sue mirabil mura,

quasi l’età feroci

si sgomentaro di recarle offesa,

e guidaro dai barbari remoti

l’ira e il ferro dei Goti

alla fatale impresa.

Ed or vedete i gloriosi avanzi,

come sdegnosi dell’ingiurie antiche

stan minacciando le stagion nemiche.

Al di là dei versi efficaci, degli accordi densi e suggestivi di aggettivi e sostantivi (le «bellicose trionfate navi» che piacquero al Foscolo) che potevano isolarsi anche in tanti precedenti componimenti del Guidi, in questa canzone le immagini si svolgono in veri quadri larghi ed evidenti e soprattutto capaci di un alone suggestivo in cui si risolvono i suoni malinconici e cupi, i gesti lenti e solenni di indubbia efficacia. Il succo piú denso di tanti scatti eroici, altrove piú isolati e bloccati, è qui trasfuso nel ritmo generale, nello sviluppo di immagini, nel risultato efficace di una emozione piú sicura e piú chiara.

Nella produzione del Guidi meritano un cenno anche i Sonetti, specialmente quelli amorosi, e tra questi quello riportato dal Foscolo nei Vestigi della storia del sonetto italiano[25]

(Non è costei dalla piú bella idea,

che là su splenda, a noi discesa in terra;

ma tutto il bel, che nel suo volto serra,

sol dal mio forte immaginar si crea.

Io la cinsi di gloria e fatta ho dea,

e in guidardon le mie speranze atterra;

lei posi in regno, e me rivolge in guerra,

e del mio pianto e di mia morte è rea.

Tal forza acquista un amoroso inganno;

che amar conviemmi, ed odiar dovrei,

come il popolo oppresso odia il tiranno.

Arte infelice è ’l fabbricarsi i dei:

io conosco l’errore e soffro il danno,

perché mia colpa è ’l crudo oprar di lei)

che conferma l’accertamento nel Guidi di un nucleo personale di un acerbo vigore, di un orgoglioso virile risentimento, che è alla radice delle sue espressioni piú intense, del suo bisogno di poesia grande, della sua capacità di emozione su temi non volgari.

Sicché a quel poeta mancato va pure riconosciuta una potenziale disposizione poetica, un animo non privo di un singolare scatto e di una tensione piú genuina, ma limitata e incapace di durare al di là di felici e intense mosse, di momenti suggestivi, pronta a risolversi in retorica faticosamente organizzata.

Il tentativo guidiano, pieno di velleità e aspirazioni, rimase presto isolato di fronte al prevalere delle esigenze arcadiche di ordine e chiarezza; ma mentre un’eco della sua immaginosità bellicosa e grandiosa passerà nello stesso Metastasio dei drammi romani, l’opera del Guidi serví di appoggio ad una interpretazione e proposta di poetica arcadica – quella del Gravina – che, battuta da quella del Crescimbeni, rimane però importantissima nella prima raggiera di esigenze e direzioni reperibili nella costituzione complessa dell’Arcadia.

Diversa e piú complicata è la situazione dell’Italia meridionale, dove il barocco aveva avuto una forza profonda e la sua crisi si era configurata soprattutto nell’estremo barocco fiammeggiante degli Artale e dei Lubrano. Eppure proprio nel caso del Lubrano era possibile ritrovare alla base del suo esasperato tardo-barocco una ricerca di piú solida materia morale.

E nelle polemiche di secondo Seicento sulla poesia e sull’esercizio poetico non mancano chiari indizi di un forte disagio, come nel caso di Giuseppe Battista che con le sue liriche e la sua Poetica porta in luce elementi di una volontà di poesia piú umanamente sostanziosa, in un significativo squilibrio fra esigenze che possono avvertirsi in qualche modo come non piú barocche e prearcadiche e una pratica artistica che non riesce a svincolarsi dalle condizioni barocche.

E proprio in questo contrasto di gusto, entro le remore, le incertezze, le difficoltà dell’ultimo barocco, si inseriscono le posizioni piú chiaramente prearcadiche di Giovanni Cicinelli, duca delle Grottaglie, che con la sua Censura del poetar moderno (1677) prendeva posizione contro le poetiche barocche (accusate di andar soprattutto «in busca di parole», di esaurirsi nel «grattugliare» gli orecchi e nell’inventar traslati invece di creare organiche e robuste «favole», di mescolare stili e linguaggi in impasti sgradevoli e incoerenti) e proponeva una poetica basata sulla decisa ripresa dei classici, sulla organicità linguistica, sulla sostanza di una ricchezza sentimentale tradotta in forme non piú dispersive e ornamentali, ma sobrie, «intelligibili» e «verosimili».

Intanto la nuova cultura filosofica e scientifica trovava diffusione, affermazione e organizzazione nelle nuove accademie, come quella napoletana degli «Investiganti» in cui l’essenziale spinta del razionalismo e dello sperimentalismo si traduceva anche in istanze letterarie e linguistiche antibarocche, che riassorbivano gli esempi di fedeltà petrarchistica di uno Schettini e di un Buragna e rilanciavano il culto e la fecondità dei classici greco-latini e italiani che trovavano piú robuste ragioni estetiche e critiche nell’opera del Gravina e, prima ancora, del Caloprese; importante quest’ultimo sia per il suo diretto insegnamento a Scalea (e per lo stesso metodo nuovo di quell’insegnamento a noi noto attraverso l’autobiografia di uno dei suoi allievi, lo Spinelli), sia per il valore delle sue intuizioni estetico-critiche tese ad un senso alto della poesia rivendicata pur entro il suo sistema razionalistico, e consolidate nella scelta indicativa, e nei modi del relativo rilievo critico, degli autori a cui soprattutto si applicò: il Della Casa, con la sua poesia grave e risentita, l’Ariosto (cui si riferisce la Lettera sopra la concione di Marfisa a Carlo Magno), esaltato per la sua libera forza fantastica e per la sua sublimazione della concreta realtà su di una via che precorre i giudizi ariosteschi del Gravina.

Anche nell’Italia meridionale si veniva cosí sviluppando una situazione letteraria che, pur mancando del tessuto e degli esempi poetici prearcadici e barocchetto-prearcadici del Nord e del Centro, offriva viceversa alla nuova letteratura un piú forte apporto filosofico-estetico che spesso supererà per le sue implicazioni piú profonde la situazione media del gusto arcadico: come nel caso del grandissimo Vico, ma anche in quello del Gravina. Sicché anche nel Sud l’Arcadia troverà poi sviluppo di colonie, presenza (anche se minore) di lirici arcadici, e già a fine Seicento saranno numerose le «conversioni» dal gusto barocco a quello arcadico che alcuni degli stessi maggiori filosofi e storici meridionali del primo Settecento ricorderanno nelle loro autobiografie come momento fondamentale nella loro vita e nella loro educazione letteraria e intellettuale. Basti ricordare il Vico e il Giannone[26], che pur giunsero a soluzioni anche scrittorie assai diverse dalla piú comune «correttezza» della prosa arcadica media, ma che difficilmente potrebbero interamente riportarsi anche nella loro prosa ad una pura continuità con quella barocca.

4. Estetica, critica e poetica

A queste diverse offerte di tentativi di nuova poesia non piú barocca, con le loro implicazioni di cultura e di poetica, si intreccia e si riferisce – con diverse forme di accettazione e di critica rispetto alla loro realtà di esempi già validi nel distacco dal barocco e nella costituzione di una nuova letteratura: il caso sintomatico della discussione sulla validità intera o semplicemente contenutistica della poesia del Maggi – la folta attività estetico-critica e teorico-programmatica dei riformatori d’Arcadia. In essi variamente prevalgono un piú deciso interesse per i veri e propri problemi d’estetica, un interesse critico e storico-letterario, una volontà di subordinare pensamenti estetici, osservazioni critiche, storia, anche erudita, della letteratura del passato a proposte di poetica da tradurre in nuove opere e in nuove direzioni di gusto. Con tutto un importante sviluppo appunto del pensiero estetico, ricco di intuizioni che spesso si aprono alla maturazione successiva delle estetiche del sensismo, del neoclassicismo e preromanticismo, della critica vera e propria esercitata sui classici antichi e italiani o sui prodotti contemporanei, della storiografia letteraria che proprio in questa zona trova le sue piú vere origini e il suo appoggio concreto nel recupero erudito di dati e fatti, di ricerche biografiche e bibliografiche (in accordo con la grande spinta storico-erudita, elemento fondamentale della nuova cultura di primo Settecento). Ma insieme, ripeto, con una centrale tensione pragmatica e programmatica in vista di una nuova letteratura corrispondente alle istanze teorico-critiche e alla stessa delineazione storiografica della letteratura del passato, essa stessa sentita e profilata come funzionale alle sue premesse e ai suoi sfoci nella nuova letteratura.

Cosí, piú direttamente configurandosi in forma di preciso commento delle rime «sacre» del De Lemene e costituendo anzitutto un preciso esempio di analisi critica puntuale ed attenta ai piú sottili effetti dello stile e del linguaggio poetico – sulla via cosí di quella ricerca stilistica che è parte fondamentale della prospettiva anche operativa della poetica arcadica –, il libretto del gesuita milanese Tommaso Ceva (1649-1737)[27], Memorie d’alcune virtú del signor conte Francesco De Lemene con alcune riflessioni su le sue poesie (Milano 1706), ricava dalla riflessione sul testo esaminato e lodato non solo acuti rilievi critici, ma un sentimento e un’idea della poesia che ben s’intonano alle nuove esigenze di un buon gusto e di un buon giudizio nemici degli eccessi e dell’affettazione[28] – caricando di fatto, come tante volte avviene in quest’epoca, la realtà mediocre del testo di una tanto maggiore suggestione e finezza – e culminano in alcune definizioni del potere della poesia che insensibilmente «incatena e incanta» e lascia nel lettore una dolcezza profonda «a guisa di un liuto armonioso che segue per lungo tempo a risonare da sé medesimo senz’esser tocco, rifacendo sotto voce l’aria e le canzoni già fatte», o della stessa poesia che «può quasi chiamarsi un sogno fatto in presenza della ragione». Definizione, quest’ultima, che ben può indicare lo sforzo congiunto del pensiero estetico e critico e delle aspirazioni ed esigenze della poetica dell’Arcadia per individuare insieme la forza «geniale» della poesia e della sua «invenzione» e il limite del suo controllo da parte della ragione, che ne autorizza i sogni distinguendoli dal «vero», ma esigendo da essa il rispetto della «verosimiglianza» e dell’interna coerenza.

Ché in tal direzione variamente si muovono le istanze critiche e teoriche arcadiche, riprendendo spunti piú congeniali del pensiero estetico barocco moderato (Pallavicino, ecc.), e combattendo insieme una complessa battaglia rispetto al vero e proprio gusto barocco e al gusto razionalistico boileauiano francese da cui, d’altronde, i teorici arcadici venivano sollecitati allo stesso svincolamento dal «malgusto» secentesco e a una piú razionale difesa del loro senso della poesia e della tradizione italiana e classica precedente alla «decadenza» barocca o persistente entro lo stesso Seicento nelle linee piú classicistiche e moderate.

In tal direzione si colloca anche la prospettiva teorico-critica e pragmatica del Muratori che, nella sua fase piú giovanile e poi con ritorni entro il prevalente impegno storico-erudito ed etico-civile-religioso, fortemente si applicò all’esercizio della critica e della riflessione estetica collegata alle sue letture piú contemporanee e alle sue aspirazioni di riforma attiva della letteratura, piú particolarmente verificabile (come faremo successivamente piú volte) in rapporto ai vari generi, specie teatrali.

Proprio dalla illustrazione ed esaltazione del Maggi[29], avvertito da lui come rinnovatore del gusto e vittorioso avversario del secentismo, ha inizio piú chiaro l’attività critico-teorico-pragmatica del Muratori, sull’esempio di quel poeta severo e sicuro (ancora con un’aggiunta alla sua realtà da parte del critico)[30], impostava la sua posizione di fondo basata su di una richiesta di «sodi pensieri», di contenuti «onesti» e vigorosamente pensati attinti soprattutto dalle «miniere» della «pietà» religiosa e della filosofia morale, confortati dalla «scorta» della natura e dei «migliori antichi», «ingegnosi» e non prosaici, ma totalmente alieni da quel «soverchio tumor dello stile», che

è un di que’ belletti, i quali perché sono troppo carichi di colore, e troppo forte ricevuti dal volto, non aiutano, ma guastano la bellezza e l’accusano per menzognera.[31]

Tale posizione venne poi rafforzata, da una parte nelle Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti (pubblicato la prima volta in due parti nel 1708 e nel 1713), in cui piú centralmente il Muratori raccordava la nozione letteraria arcadica del «buon gusto» ad una sua nozione piú generale[32] morale e filosofica (e del resto, abbiamo visto, tale raccordo non mancava, anche se in forma piú tenue, nel Menzini e in altri letterati della prearcadia specie toscana nel loro accordo cultura-letteratura), sottesa dalla nuova fiducia nella ragione e nel rapporto ragione-natura; dall’altra, in direzione piú chiaramente letteraria, nell’opera Della perfetta poesia italiana (1706) che costituisce il culmine dell’impegno teorico-critico-pragmatico del Muratori anche se esso piú minutamente si riverbera nelle Osservazioni sulle rime del Petrarca (1711), fondamentale documento della forza e dei limiti della piú vera e propria critica letteraria e del gusto del Muratori.

Ché egli, nel commento petrarchesco, appare chiuso nella distinzione di bellezze e difetti, o incapace di comprendere sia certa piú intima poesia del Petrarca, scambiata per prosaica e troppo priva di «spirito», sia viceversa altre sue forme piú ardite scambiate per turgide ed eccessive (cosí come in generale il Muratori non comprese la grande poesia del «grande filosofo» Dante – preferendo semmai le sue liriche alla Commedia – e quella di Omero per certa sua primitiva grossolanità e sconvenienza), ma pure – sulla direzione piú attiva delle sue personali e storiche preferenze – ben capace di consuonare con un tipo di poesia moderatamente immaginosa, fondata su sentimenti veri e naturali, espressa con un linguaggio ingegnoso, ma chiaro e comunicabile, leggiadro e ornato, ma non affettato e lambiccato. Mentre l’intento di riconquistare – contro le negazioni presuntuose dei secentisti e contro le accuse solo intellettualistiche dei boileauiani francesi – il Petrarca (e con lui il Tasso ed altri poeti della tradizione italiana) e di insegnare, sulla sua scorta, una via corretta di nuova poesia agli scrittori contemporanei, poteva, per un verso, limitare l’esercizio critico piú libero ed autonomo: ma, d’altra parte, ne acuiva indubbiamente l’interesse attivo e militante. Né del resto il Muratori accettava una simile riconquista e lezione in forme indiscriminate ed agiografiche, cercando anzi – e non importa se spesso, come si è detto, con errori e incomprensioni – di sottoporre lo stesso grande ed esemplare Petrarca ad un esame minuto e spregiudicato.

Ma, ripeto, lo sforzo centrale del Muratori, per quanto riguarda la meditazione teorico-critica sulla letteratura e la riforma del buon gusto dopo la decadenza secentesca, fu compiuto nel trattato Della perfetta poesia italiana, in cui – sulla base generale delle sue prospettive di generale riforma culturale e spirituale connessa con la sua posizione di cattolico aperto alle nuove istanze del razionalismo – egli si propose di portare «nuovi lumi» all’arte poetica, come egli dice – nella sua prosa bonaria e ragionata, aderente al suo fondamentale «buon senso» e al suo stesso ideale di un linguaggio della prosa soprattutto comunicabile e comprensibile – all’inizio dell’opera, dopo aver indicato i limiti di tanti illustri trattati estetici troppo fondati sulla esemplarità assoluta di alcuni modelli poetici classici o troppo fermi alla «corteccia delle cose», troppo incapaci di render precisa ragione delle loro scelte e dei loro giudizi:

... utile dunque, anzi necessaria cosa egli sarebbe il ben discernere i primi principii, le ragioni fondamentali e il bello interno dell’arte poetica, consistendo in ciò la pienezza di quel buon gusto, senza cui non si può divenir perfetto poeta, e con cui solo dee sperarsi di poter ben giudicare, o gustare gli altrui perfettissimi parti, come ancor condannare con giusta censura gli errori altrui. A questo buon gusto quantunque per me si confessi che ci possono condurre i libri di tanti eccellenti maestri, pubblicati finora, pure intenderei anch’io d’incamminar gli studiosi per una via che vorrei fosse ben piú facile e piana delle finora scoperte, come per avventura essa è alquanto piú nuova dell’altre. E ciò da me in parte si tenterà nel rappresentare con varie osservazioni non tanto la perfezione richiesta alla poesia, quanto i difetti a’ quali è la poesia sottoposta, e da’ quali dovrà liberarsi, affinché essa e i suoi professori sieno da qui avanti convenevolmente lodati. Esporrò nel medesimo tempo le virtú poetiche piú luminose, e principalmente quelle dello stile, rintracciando le interne cagioni della sua bellezza o deformità, e scoprendo qualche miniera, almeno alla gioventú innamorata delle lettere amene, per mezzo di cui si possano in avvenire adornar di piú sode e preziose gemme i poetici lavori.[33]

Chiaro è anche qui il nesso inscindibile fra meditazione estetica, principi di critica e volontà pragmatica di intervento e di ammaestramento dei giovani scrittori, caratteristica fondamentale della posizione muratoriana e in genere dei trattatisti arcadici.

E tuttavia ciò non toglie che la stessa meditazione estetica e critica del Muratori abbia pure un suo valore entro la tensione estetica arcadica alla definizione e al sentimento della poesia e si configuri in un interessante equilibrato compromesso (tanto meno geniale e vigoroso non solo rispetto alle intuizioni del grandissimo Vico, ma anche di quelle del Gravina) fra la forza della fantasia e il controllo della ragione e del giudizio-gusto, fra il moralismo e contenutismo (già fortemente espressi nella Vita di C.M. Maggi) e il carattere dilettevole e formale della poesia: compromesso raggiunto per vie assai complicate e non senza la volontà di una radice piú unitaria ed interna. Ché in questo suo piú maturo trattato, se centrale è l’affermazione ben muratoriana che la poesia è «figliuola o ministra della morale filosofia», lo scrittore preciserà che però la poesia non è «la stessa moral filosofia abbellita e vestita d’abito piú vago» e che essa «in quanto è arte imitatrice e componitrice di poemi, ha per fine il dilettare; in quanto è arte subordinata alla filosofia morale o politica, ha per fine il giovare altrui». Sicché

... chi non diletta colla buona imitazion poetica, pecca propriamente contra un’intenzione della poesia: e chi con imitare e dilettare non apporta eziandio profitto al popolo, pecca contro all’altra obbligazione della poesia; onde niun d’essi potrà dirsi vero e perfetto poeta...;[34]

ancor meglio precisando poi, nel capitolo primo del terzo libro, in quel nesso essenziale una sorta di priorità del «piú prossimo, immediato ed essenziale» fine dei poeti, «il dilettare», rispetto al «secondario», «che è il giovare ai loro ascoltanti e lettori».

Di quel fine fondamentale il Muratori illustra i caratteri di particolare verità consistenti nel fatto che la fantasia «dipinge» (diversamente dalla storia e dall’oratoria) il vero con le «immagini naturali e con le immagini artificiali», tutte mediate attraverso la verisimiglianza poetica fondata sui soggettivi «affetti dei poeti» che rendon verisimili anche ciò che al freddo raziocinio può non apparire tale, e che giustificano l’uso del linguaggio «ingegnoso» che produce la necessaria meraviglia della poesia senza accettare invece le «acutezze» fondate sul falso o le immagini ingegnose protratte abusivamente al di là di ogni verisimiglianza e giustificazione d’«affetti». Cosí, alla luce del controllo del «giudizio», la poesia – ché il caso della prosa è diverso e deve piú direttamente ricondursi alla semplice naturalezza e al «parlare ordinario degli uomini» – deve insieme rifuggire e dall’eccesso ingegnoso e metafisico e da quello di una «siccità» prosaica e inanimata, deve raggiungere la meraviglia senza giungere all’affettazione. E cosí essa deve rifiutare sia la pedissequa imitazione dei modelli classici, sia l’assurda «modernità» – priva di ogni legame con la lezione feconda della tradizione – già esercitata cosí pericolosamente dai marinisti.

In questa direzione il Muratori, pur riprendendo i termini secenteschi dell’ingegno e della meraviglia, specie nell’accezione delle poetiche del barocco moderato, li veniva in realtà usando e configurando in modi nuovi (si pensi alla sottile distinzione operata nei capitoli quarto e quinto del secondo libro a proposito del vero e del falso delle immagini), entro una problematica avvivata dal razionalismo e tesa ad affermare i diritti e le forze della poesia, contro ogni sua proliferazione morbosa e scomposta e sempre in un nesso e contesto morale e civile e nel controllo vigile della ragione.

A tale difficile impegno di distacco dal Seicento (pur con chiare convergenze di gusto, come nel caso del Muratori, con esempi contemporanei di prearcadia «barocchetta»), di ripresa della tradizione poetica italiana pur variamente configurata, di accettazione e distinzione rispetto alla lezione razionalistica francese, corrisponde un po’ tutto il movimento di meditazione estetica, di critica di gusto dei riformatori arcadici che proprio nell’attrito e nella discussione con i francesi trova una particolare sollecitazione all’estrinsecazione della sua esigenza e della sua linea direttrice, sia in sede estetica, sia in sede di scelte e di proposte programmatiche.

Non a caso molti degli scritti estetico-critici dei riformatori arcadici sono direttamente collegati ad una grossa polemica promossa dal bolognese Gian Giuseppe Orsi (1652-1733), scrittore di poesie petrarchesche (con le quali egli collaborava a quella linea di petrarchismo «ortodosso» che vedremo caratteristico dell’Arcadia bolognese e poeticamente risolto solo nel caso del Manfredi), ma soprattutto importante appunto per il suo scritto polemico Considerazioni sopra l’opera francese intitolata «La maniera di ben pensare sulle opere di spirito» (1703) con cui egli rispondeva alle accuse mosse dal gesuita francese Dominique Bouhours (nella sua opera De la manière de bien penser dans les ouvrages de l’esprit, 1687) alla letteratura italiana, responsabile della diffusione in Europa del «malgusto» concettistico e prezioso secentesco e di questo improntata profondamente sin nei suoi autori piú famosi e lontani (non solo il Tasso – padre del secentismo e di quella éclatante folie di faux brillants tipicamente italiana – ma sino il Petrarca) e nelle sue scaturigini in poeti latini concettosi come Lucano.

La risposta dell’Orsi (e poi le sue repliche ai gesuiti francesi del giornale di Trévoux insorti a difesa del libro del Bouhours) ben impostava, fra polemica e posizioni positive, questa lunga querelle – che venne coinvolgendo vari scrittori italiani in gran parte sostenitori dell’Orsi, in minor parte avversari e dissenzienti[35] (fra i primi il Manfredi, il Salvini, il Muratori, fra i secondi soprattutto il pesarese Francesco Montani) –, accettando le critiche al Marino e al secentismo, da cui fortemente segnava il distacco del proprio e contemporaneo «buon gusto» in Italia, ma insieme difendendo i poeti della tradizione precedente rafforzando la loro posizione esemplare e «autorizzante» per i nuovi poeti, e proponendo – sulla via piú congeniale alle posizioni di riforma arcadica – un tipo di poesia immaginosa e moderatamente ingegnosa, che sfuggiva insieme alla esuberanza stravagante del secentismo e alla secca aridità della concezione nazionalistica francese cartesiana e boileauiana.

Assai compatto il fronte arcadico costituitosi intorno a questa polemica che arricchiva la presa di coscienza dei letterati italiani (con varie accentuazioni e modulazioni di orgoglio nazionale, ma anche di autocritica) nei confronti del proprio distacco dal «malgusto» barocco, della propria volontà di ripresa della tradizione e della lezione dei classici, della propria nozione del «buon gusto» e della poesia, contemporaneamente difesa dagli eccessi di quello stesso razionalismo che pur cosí fortemente contribuiva alla ribellione al barocco e alle stesse formulazioni di equilibrio fantasia-ragione, natura-arte, dominanti nelle posizioni arcadiche, anche se svolte con varia tensione e accentuazione sino a certi maggiori sforzi di valutazione dell’aspetto predominante dell’estro e del «furore poetico», come «empito sovrumano e divino», e nei confronti della esemplarità e autorità dei classici, rispetto alle quali possono considerarsi quale punto estremo di questa polemica le affermazioni del Montani[36] (fautore insieme di quella forza dell’estro cui sopra accennavo) e di cui – con formulazioni spesso troppo ipervalutate in senso di precorrimento romantico – si faceva acceso sostenitore anche Giulio Cesare Becelli nel suo trattato Della novella poesia (1712) in cui la poesia italiana e moderna è addirittura contrapposta a quella dei latini e dei greci, frutto di altri tempi e situazioni interamente mutati nel tempo moderno[37].

Ma, per stare soprattutto al piú attivo rapporto fra estetica, critica e poetica, piú giova soffermarsi sulle posizioni e proposte del Crescimbeni e del Gravina che piú direttamente e vistosamente si opposero nella concreta scelta delle direzioni operative della letteratura arcadica.

Giovan Mario Crescimbeni nacque nel 1663 a Macerata e ricevette una prima educazione letteraria alla scuola del gesuita Carlo d’Aquino. Passato a Roma nel 1681, vi rimase sino alla morte, 1728, come arciprete di Santa Maria in Cosmedin.

Al Crescimbeni non si può certo chiedere un vero accento di poesia nella sua produzione abbondantissima (sonetti, canzoni, ditirambi, egloghe), che egli stesso del resto riduce ad un esercizio pedagogico ed illustrativo della tematica e del gusto arcadico quando, nella prefazione della sua raccolta di poesie, dice che quella produzione di versi «nacque per servizio della ragunanza degli Arcadi ne’ primi anni della fondazione di quella». Produzione di versi come esercizio di esempi di temi, di forme metriche, di modi stilistici, quasi appendice al suo lavoro di organizzazione pratica e di editoria ufficiale[38] e alla sua interpretazione della poesia italiana in funzione di una nuova poetica del «buon gusto» offerta all’Arcadia nei suoi volumi letterari: Istoria della volgar poesia, Commentari alla istoria della volgar poesia, Bellezza della volgar poesia[39]. In questo esercizio poetico possono però interessarci, come indice della scelta che il Crescimbeni faceva «in servizio» degli arcadi, la mancanza di accenti eroici[40], il predominio di intonazioni «leggiadre» (ma quanto pesanti e goffe!), la trattazione di argomenti convenzionalmente seri (sacri e filosofici), ma alleggeriti nella finzione pastorale e in una certa facilità di improvvisazione[41] e la stessa divisione delle rime secondo la distinzione di uno «stil proprio italiano, chiamato comunemente petrarchesco» e di uno stile «greco italianizzato che chiamiamo chiabreresco» (pindarico e anacreontico): distinzione essenziale per la posizione che il Crescimbeni assume nelle sue opere critico-programmatiche.

In tali opere Giovan Mario Crescimbeni, piú che una vera e profonda meditazione estetica, svolge una interpretazione della tradizione poetica italiana in vista della proposta di una poetica che su quella interpretazione particolare doveva basare la propria validità e salvezza. La posizione crescimbeniana di interpretazione della poesia italiana del passato parte dalla Istoria della volgar poesia (1698) e si precisa nei Commentari, con un duplice e collegato interesse critico-pragmatico e storico-erudito (indicazione delle origini e delle innovazioni delle forme metriche, di generi letterari, dei legami di influenze e di tradizioni particolari, oltre che documentazioni sulla vita e le opere degli autori minutamente ricercate in stampe e manoscritti), con un reciproco condizionarsi di passato e presente, di interpretazione del passato, di proposte per il presente in cui naturalmente prevalgono le seconde, alla luce delle quali la tradizione è riesaminata e chiamata ad offrire un sostegno di esempi omogenei per la nuova letteratura. La tradizione poetica italiana (l’interesse del Crescimbeni – a parte la prosa esclusa del tutto – va prevalentemente alle forme della lirica) si appoggia alla tradizione provenzale e, dopo aver raggiunto grande altezza nel Trecento soprattutto con il Petrarca (e Dante interessa piú per le liriche che per il poema), rendendosi capace di gareggiare con la poesia greco-latina[42], si precisa nella linea del petrarchismo: prima Giusto de’ Conti, poi, dopo la caduta della poesia volgare nel periodo umanistico («il colmo della barbarie che avesse occupato la volgar poesia»), Poliziano e Lorenzo de' Medici«che molto operarono per ritornare il buon stile del Petrarca nel suo splendore» e ancora del Benivieni, del Sannazaro, del Bembo e degli altri petrarchisti cinquecenteschi sui quali s’innalzano il Della Casa e soprattutto il Di Costanzo per la loro capacità di riprendere lo «stil puro e terso» del Petrarca con una novità di animazione e rilievo che superasse la regolarità piú smorta e l’imitazione meno originale del Bembo. Nel Seicento, di fronte alla decadenza marinistica (ma del Marino si elogiavano gli idilli pastorali), la tradizione «buona» continua attraverso dei petrarchisti fedeli (Schettini, Buragna) e riceve un «accrescimento» per opera del Chiabrera, considerato come il vero iniziatore dello stile «greco italianizzato» nella sua capacità di mediare in uno stile italiano, secondo la buona tradizione petrarchesca, «modi e bellezze» della poesia greca, diversamente dai tentativi di metrica «barbara» del Tolomei a cui il Crescimbeni è nettamente avverso.

L’Arcadia aveva cosí di fronte, nell’interpretazione crescimbeniana (scartato il secentismo ed ogni tentativo errato del periodo umanistico vero e proprio), due linee fondamentali di tradizione poetica a cui rifarsi nella posizione tipica di novità appoggiata sulla tradizione e sugli esempi: la linea petrarchesca con le «innovazioni» del Di Costanzo, e la linea chiabreresca, unica autorizzata nella direzione del classicismo (nelle due possibilità pindarica e anacreontica, anche se in realtà solo quella anacreontica era piú congenialmente accettata).

La parte piú precisamente programmatica dell’opera del Crescimbeni è costituita dalla Bellezza della volgar poesia, in cui il Custode d’Arcadia si preoccupa di tracciare un vasto quadro di generi e forme per ogni possibile espressione moderna di argomenti e interessi diversi, per non lasciare nulla fuori dell’Arcadia («fiore di ogni letteratura»). Ma nello stesso tempo, dentro questo quadro eclettico, dentro questa pedantesca compilazione di generi e di esempi adatti ad ogni genere, il suo interesse piú vivo si volge ad indicare in precise forme (sonetto e canzonetta e soprattutto sonetto pastorale e anacreontico) la poetica adatta all’espressione dei motivi arcadici piú genuini: non motivi filosofici, eroici, morali di cui pur si preoccupa in maniera piú convenzionale e con un omaggio piú retorico ad un didascalismo quanto mai freddo ed esteriore, ma motivi di idillio, di piacevole ed animata fruizione di beni mondani, di sentimenti galanti, di moderato «diletto» del vivere in una condizione di grazia e di brio: espressione centrale – anche se nel Crescimbeni cosí aduggiata da uno spirito libresco e accademico – dell’animo arcadico, del suo spirito idillico e melodrammatico, che troverà sempre meglio il suo tono e le sue proporzioni piú omogenee nell’opera di uno Zappi, di un Metastasio, di un Rolli.

Tali scelte del Crescimbeni sono efficacemente testimoniate dal dialogo IX della Bellezza della volgar poesia[43], che, parlando della lirica e particolarmente del sonetto, sottolinea le qualità desiderate: chiarezza, ordine, coerenza espressa nei legami o passaggi, essenziale regolarità delle rime, lingua toscana pura, «concorso delle idee» e fine rilevato del sonetto. Qualità che vengono ritrovate nelle maniere poetiche offerte dal Di Costanzo (e d’altra parte dal Chiabrera) e poi nell’opera contemporanea del Menzini, del Filicaia, dello Zappi e degli altri verseggiatori dell’Arcadia romana; e specialmente in esempi caratteristici per il gusto di minuta cura stilistica, di proporzione ridotta e sicura, di animazione idillica e melodrammatica: i sonetti pastorali del Menzini, i sonetti anacreontici-pastorali dello Zappi, e magari i minuscoli «sonettini» del Tommasi in cui prevalgono, come nelle canzonette anacreontiche, chiarezza, leggiadria e canto nitido ed animato.

Mentre nel dialogo IV della Bellezza della volgar poesia il Crescimbeni, affrontando un tema impostogli dal rinnovato interesse classicistico («sul modo di comporre usato dai greci e come possa l’istesso modo imitarsi dagli italiani»), ribadiva la sua tesi della indipendenza e originalità della nostra letteratura rispetto a quella greca, giungeva ad ammettere sull’esempio di Chiabrera la possibilità di una imitazione moderna di Pindaro e Anacreonte, poeti di un’epoca in cui già «il fisicamente comporre fu ristretto poco men che affatto al semplice fraseggiare e figurato modo di dire»[44], ma non dei primi «padri greci» il cui metodo poetico di esprimere verità misteriose e razionalmente incomprensibili agli altri uomini mediante miti corposi e sensibili non è accettabile nei tempi moderni, che di tal metodo non hanno affatto bisogno potendo razionalmente spiegare agli altri uomini le piú difficili verità. Chi volesse dunque imitare i primi poeti greci farebbe cosa inutile e assurda:

una vana e poco accorta operazione, perciocché, come abbiamo detto, è già moltissimi secoli che è cessata la cagione per la quale i primieri poeti greci sí fattamente composero; alla quale potete giungerne un’altra parimenti cessata, cioè che non perché coloro cercassero ridur gli uomini a civil vita, volevano che la loro scienza non fosse nel suo profondo a tutti palese, ma per non perdere quella venerazione, che eglino perciò ritraevano dagli uomini; ma oggimai, che tanto ogni scienza veggiamo diffusa, e sparsa per l’universo, e’ si par senza fallo vana cosa che i poeti pretendano di non comunicar con altrui le loro dottrine e per questa via giungere alla venerazione, oltre a che, comunque siasi e della suddetta ragione voglia giudicarsi, certo egli è, che simili macchine, come oscurissime, e per lo piú anche di interpretazioni incapaci, con niuno utile pochissimo diletto arrecano, ancorché con eccellenza poeticamente siano rappresentate, per essere l’oscurità vizio cotanto brutto che ogni bellezza poetica assorbisce e difforma.[45]

Questo attacco contro l’imitazione della poesia greca, del suo «metodo» mitico («figure» contro «miti», parlar poetico figurato contro favole mitiche sensuose[46] e piene di ascose verità vuole il Crescimbeni come distinzione della poesia italiana), aveva evidentemente un preciso riferimento polemico, mirava a contrapporre un tipo di poesia chiara, comprensibile, piacevolmente insaporita di realtà, lucidamente disegnata, piú sensuosamente plastica, alla proposta di una poesia profondamente didascalica e mitica, complessa e fortemente sensuosa, che veniva a turbare il programma mediocre, ma piú sicuro (e già ricco di attuazioni) della poetica idillica, della correttezza-leggiadria, del canto melodrammatico, del moderato realismo elegante, dell’evidenza chiara e ragionevole.

Il fautore della poesia mitica, della ripresa nella poesia moderna dello spirito e del metodo essenziale della poesia greca, era Gian Vincenzo Gravina, l’amico e consigliere del Guidi, il protettore ed educatore del Metastasio (e maestro anche del Rolli), legislatore prima e poi ribelle d’Arcadia: personalità di gran lunga superiore al Crescimbeni, come la sua posizione estetica e critica è tanto piú complessa e feconda, anche se priva di una vera capacità di accordo con il suo tempo e con le sue pratiche possibilità. Nato a Roggiano in Calabria nel 1664, il Gravina aveva studiato a Scalea con il filosofo Gregorio Caloprese, suo cugino, poi a Napoli (dove per circa un decennio visse in un fecondo contatto con quel fervido ambiente culturale, anticurialista e ricco di nuove esigenze filosofiche, giuridiche, letterarie) e a Roma (1689), dove aveva ottenuto la cattedra di «leggi civili» e di diritto canonico (come giurista si rese illustre con le sue Origines juris civilis, Lipsia 1708). Visse in Roma fra le occupazioni della Sapienza e le discussioni letterarie e qui morí nel 1718.

Il Gravina fu indubbiamente una personalità complessa e vigorosa, impegnata, con estrema serietà intellettuale e morale, in uno sforzo di rinnovamento culturale e ideologico che trovò esito non solo nella sua grande opera di giurista, ma anche in campo etico-filosofico-civile ed estetico-critico, in un nesso stringente delle sue attività costituito da una severa e coraggiosa posizione di lotta contro ogni specie di conformismo, di passività morale ed intellettuale, di oziosa dispersività, in forza di una profonda fiducia nella capacità liberatrice della ragione, diretta emanazione della luce di Dio nell’attività filosofica e morale degli uomini (secondo la caratteristica teoria della «luce» cosí centrale nel pensiero e nella prospettiva etico-civile del Gravina), centro propulsore delle forze morali e fantastiche da lui pur vigorosamente affermate. Come si può capire riferendoci alla famosa Hydra mystica, che non è solo un profondo ed originale libello polemico antigesuitico, ma è, piú in generale, l’espressione della graviniana tensione di un rinnovamento, a tutti i livelli, della vita intellettuale e morale dell’uomo, che sta alla base della sua volontà di riforma pedagogica degli studi espressa nelle Orationes come la De institutione studiorum e la De sapientia e delle sue stesse istanze letterarie. E cosí si può capire da una parte la profondità del suo classicismo tutt’altro che pedantesco e archeologico (passato, del resto, dalla posizione intransigente di ripresa umanistica, chiusa alla considerazione delle letterature volgari, chiarita negli Opuscula, alla posizione di un classicismo moderno che punta viceversa sulla ripresa classica nella letteratura italiana passata e contemporanea) e, dall’altra, l’urto di questa personalità con elementi dell’ambiente piú conformistico e mediocre di Roma, dove presto il Gravina si trovò ad essere oggetto di feroci attacchi e satire (quella famosa di Quinto Settano) che colpivano in lui globalmente il classicista deciso, l’intransigente e scontroso moralista, l’«empio» avversario dei gesuiti, l’autore di sfortunate tragedie.

In realtà, mentre il suo atteggiamento ideale e filosofico è essenziale a sostenere le sue idee in campo letterario, anche le sue stesse tragedie cosí inamene e pesanti – come poi vedremo parlando del teatro tragico nel periodo arcadico – testimoniano, nella loro aspirazione ad una poesia organica, alta e severa (donde la abolizione di «ornamenti musicali e artifici pittorici»), del senso profondo che il Gravina ebbe della poesia e della vita, sicché gli stessi suoi errori critici (il giudizio entusiastico sul Trissino e sul Guidi) e gli stessi limiti della sua concezione estetica (didascalismo e ambiguo rapporto tra ragione e fantasia) risalgono ad esigenze importanti e serie che approfondiscono, tra l’altro, le esigenze piú vive della rivolta antibarocca. Il rifiuto del secentismo nasce nel Gravina da un confronto con la grande poesia del passato, di cui egli piú di ogni altro critico arcadico ebbe un senso vigoroso ed adeguato (che lo colloca in tal senso vicino al Vico), da un centrale bisogno di poesia grande e come tale verificata non sul semplice metro della correttezza, dello stil puro e terso, della cura stilistica, ma sui sentimenti grandi, sulle grandi intuizioni personali e storiche, sui grandi miti capaci di far sentire in forma immaginosa ai popoli verità profonde e capaci cosí di educarli alla civiltà. Caratteristica per questo senso vivo ed ampio non solamente letterario, ma generale (e importante per il legame cultura-letteratura) del rinnovamento, è l’apertura del Discorso sopra l’«Endimione» del Guidi cosí decisa e impetuosa:

Felice in vero, e al pari degli antichi secoli chiaro ed illustre, si dee il nostro riputare, per l’ornamento e splendore che in lui si trasfonde dalle varie e mirabili dottrine; delle quali altre con lo scoprimento di nuove cose produconsi, altre che già eran cadute, risorgono; altre, che furon lungo tempo da tenebrosa ignoranza adombrate, felicemente si svelano.

La perizia delle varie lingue, le ragioni delle cose naturali, le notizie dell’antichità, le pure e sincere interpretazioni delle leggi, e quel che per l’addietro era occupato da fosca e densa caligine, pare che a’ nostri tempi, quasi da nuovo spirito desto ed agitato, scuota l’antiche tenebre e con alto volo a pura e sublime luce s’innalzi.

In parte di tanto bene dovrebbe anche esser chiamata la scienza poetica; perché quantunque per numero e perfezione di poetici componimenti finora prodotti sia tal mestiero a sí sublime segno condotto, che si è reso già sicuro, ed ha potuto liberamente scampare dall’oltraggio che potea recargli la corruttela ed il vizio, da cui nel principio di questo secolo gli era per opra di alcuni minacciata ruina; nondimeno la ragione intrinseca de’ movimenti, colori ed affetti poetici, e la vera scienza di questa facoltà o non è intera per non avere gli antichi osservatori con la lor arte abbracciato l’ampio seno di essa, o perché quel che i greci filosofi hanno avvertito e ridotto a vere cagioni, caduto nelle mani d’alcuni retori, sofisti, grammatici e critici scarsi di disegno, e di animo digiuno ed angusto, è stato da loro contaminato e guasto: avendo essi delle scientifiche riflessioni fatte da’ filosofi sopra gli esempi particolari formate, contro la mente de’ filosofi stessi primi e veri insegnatori di esse, leggi universali, e tessuto con quei miserabili precetti infelici legami a quegl’ingegni che non osano uscir dai termini prescritti, e non ardiscono ergere il volo alle scienze, né sanno spaziare per entro le cose con la scorta della filosofica ragione.[47]

In essa la richiesta di una «scienza poetica» appoggiata ad una sicura fede nel potere ordinatore della ragione distingue la posizione del Gravina da quella piú retorica e stilistica del Crescimbeni e la conduce sulla concezione del critico come filosofo ad una polemica con i critici grammaticali e precettistici e con i retori che hanno stravolto e immeschinito il vero significato della poesia, riducendola ad espressione innaturale e inverisimile, gretta e senza grandezza e costringendola entro gli schemi dei generi e delle regole pseudoaristoteliche.

L’energico rifiuto di regole e generi con valore assoluto, di giudizi retorici e precettistici, corrisponde cosí ad una concezione della poesia ancora dualistica (didascalismo ed edonismo), ma con uno sforzo di unificazione nel predominio del primo termine rilevato nella sua indispensabile natura mitica senza di cui l’ammaestramento è semplice filosofia. La natura della poesia – non ragionamento in versi e non gusto ozioso di immagine visiva o auditiva – ma profonda rivelazione, geniale e coerente nelle proprie misure (mirabile e verisimile), di verità essenziali, di motivi di civiltà umana espressi sensibilmente e con la concretezza e l’evidenza che nasce dall’esperienza viva delle cose e dei sentimenti, viene ricondotta alle origini stesse della civiltà, all’esempio insuperabile di Omero, alla poesia legislatrice dei Greci e dei loro «liberi iniziatori», da cui la retorica e la precettistica l’hanno deviata facendo perdere di vista le sue origini, la sua missione, le sue qualità intrinseche. Omero, Dante, Ariosto divengono gli esemplari di una vera poesia in cui mito e verità sono indissolubilmente fusi, come la meraviglia e la verisimiglianza vi si uniscono con «utilità» e con «diletto», «capaci di saziare i sensi del volgo e di pascere di sublimi contemplazioni e di fisiche cognizioni la mente dei saggi».

Questa concezione della poesia, esposta in forme cosí vivacemente polemiche nel Discorso sopra l’«Endimione», implicava un’interpretazione della tradizione poetica italiana e una proposta di nuova poetica, appoggiata ad una «scienza poetica», ad una «ragion poetica» certo ben piú filosofica e interessante della debole discussione del Crescimbeni sulle bellezze «interne» ed «esterne» della poesia.

Nella Ragione poetica (1708) la concezione graviniana della poesia viene ripresa e sviluppata e meglio legata ad uno speciale classicismo ben lontano dalla semplice moda del «sapit antiquum» e da un’astratta convenzione di autorità tradizionale. La poesia («una maga, ma salutare, ed un delirio che sgombra le pazzie») è rappresentazione fantastica di verità profonde ed è caratterizzata di fronte alla filosofia in quanto

la favola è l’essere delle cose trasformato in geni umani ed è la verità travestita in sembianza popolare perché il poeta dà corpo ai concetti, e con l’animar l’insensato, ed avvolger di corpo lo spirito, converte in immagini visibili le contemplazioni eccitate dalla filosofia: sicché egli è trasformatore e producitore, dal qual mestiero ottenne il suo nome.[48]

E poiché questa natura e funzione della poesia – che si rivela piú chiaramente nell’epica e nella tragedia tra loro fortemente legate ma è essenziale anche della lirica[49] (in cui soprattutto il Foscolo, in parte attraverso il Conti, applicherà tante intuizioni graviniane) – trovò la sua applicazione piú intensa e piú spontanea nella poesia greca delle origini (dai poeti mitici a Omero, Esiodo e i tragici) pur essendo peculiare ad ogni epoca e senz’altro alla natura umana («i greci poeti e le regole loro rivochiamo ad una idea eterna di natura»[50]), lo studio dei poeti greci e l’imitazione «non servile» della loro poesia, o meglio del loro modo di far poesia, è essenziale ai poeti di ogni tempo, cosí come l’analisi delle loro opere è essenziale riprova, al critico e filosofo, delle verità delle sue indagini sulla poesia in generale. E i poeti italiani in particolare, eredi della tradizione greco-latina, devono essere fedeli a quella lezione essenziale in cui è implicito anche (ben diversamente da una pedissequa imitazione di fatti e forme, da una semplice «mascherata» all’antica) l’esempio di come attraverso il mito, con il suo carattere mirabile e verisimile, sensibile e universale, deve essere espressa la natura umana nelle sue storiche condizioni e di come deve essere adempiuto lo stesso compito di fantastica e dilettevole persuasione ad azioni civili e morali, di illuminazione degli uomini. Il classicismo graviniano è cosí ben diverso dalle forme puramente ornamentali di tante esperienze classicistiche piú edonistiche e puramente letterarie, e la sua azione piú profonda si avrà solo nell’epoca neoclassica e particolarmente nella poetica foscoliana (fra il Commento alla Chioma di Berenice e la Dissertazione sulle Grazie). In base a tale idea della poesia e della sua rivelazione essenziale nella poesia greca (in cui la sua natura «dilettevole» fu subito riempita di verità e di funzione legislatrice), il Gravina svolge poi una storia della poesia, dalla Grecia all’Italia moderna: storia il cui ritmo essenziale è costituito sempre – se pur con una deviazione in rapporto alla poesia didascalica latina umanistico-rinascimentale che tentò di realizzare senza miti e «favole» – dall’altezza della poesia quando è fedele alla natura, alle sue funzioni (e quindi anche fedele alle sue origini, alla sua prima e insuperata attuazione), quando è veramente creazione di favole utili e pienamente fantastiche e sensibili, e dalla sua decadenza quando prevalgono la declamazione retorica (decadenza latina, Seicento) o la sterile versificazione di nudi e crudi ragionamenti o il piacere ozioso degli orecchi e dell’immaginazione riproduttiva. Dove si rivela ancora come – pur nei limiti della concezione estetica graviniana – l’esigenza didascalica e l’esigenza del mito, dell’incorporamento fantastico, agiscono contemporaneamente ed efficacemente su di un doppio fronte: contro un ozioso formalismo ed edonismo esteriore, contro un’arida riduzione della poesia a filosofia in versi, contro l’avventurosa novità dei secentisti senza coscienza della tradizione (e con essa reciprocamente della vera natura della poesia) e contro il regolismo pedantesco e libresco, senza esperienza di vita e senza principi estetici universali.

Posto all’origine ideale e storica della poesia Omero (la cui fortuna in Italia, come per Dante, comincia con il Gravina e con il Vico) e subordinatamente Esiodo, il Gravina insiste sui tragici e specie su Sofocle (il cui ritratto critico ribadisce bene l’ideale graviniano di saggezza convertita in poesia attraverso un’operazione della fantasia ben piú profonda di una semplice esposizione di idee in versi[51]) per poi fissare la sua attenzione su Pindaro, Anacreonte e i bucolici, considerati nell’ambito della «greca felicità»; mentre nella seconda parte del trattato, dedicata alla poesia italiana – condannata, al contrario del Crescimbeni, l’imitazione iniziale della poesia provenzale anche per l’introduzione della rima[52] –, pone in primo piano Dante (eguagliato ad Omero per la sua poesia nutrita di grandi motivi ideali e storici), offre interessanti rilievi sul Boiardo che è detto «inventore delle nuove favole», e dedica all’Ariosto notevolissime pagine (importanti per l’inizio di una critica sviluppata e meglio precisata da Antonio Conti) che si integrano con quelle sul Tasso (posposto all’Ariosto per la sua esperienza piú «libresca» e i suoi preannunci di barocco) e sul Trissino (ipervalutato paradossalmente come esempio alto di «libera imitazione» dei greci) a precisare i piú schietti principi del pensiero graviniano con la loro vitalità e i loro limiti. In rapporto poi alla situazione della poesia a lui contemporanea, il Gravina ammette parziali indicazioni per la lirica moderna sulla via del petrarchismo rinascimentale (e le sue preferenze vanno semmai nel Cinquecento al Tarsia e al Della Casa e non al Di Costanzo che non nomina neppure, anche in ciò in contrasto con il gruppo Leonio-Crescimbeni), ma appunta i suoi strali contro il falso classicismo secentesco di origine chiabreresca, che a lui doveva apparire (anche qui all’opposto del Crescimbeni) come parodia del vero classicismo, attento non tanto ai modi piú esterni dell’antica poesia quanto all’essenza del suo modo di costruire miti pieni di verità, opere di fantasia feconda e ammaestratrice.

Questo attacco al Seicento anche nella direzione chiabreresca (e implicitamente attacco alla proposta crescimbeniana di quell’unico modo di «stile greco italianizzato») e un esame piú attento della poesia italiana moderna in vista dell’educazione di nuovi poeti, son ripresi nella lettera al Maffei De disciplina poetarum (1712) dove la condanna del Seicento per la sua «insolentia» e «intemperantia» vien trasferita dal marinismo vero e proprio anche a quelle correnti secentesche che tentavano la gara con Pindaro e con Orazio, sicché non solo il Marino (a cui si riconosce estrema «felicità di natura», ma mancanza di giudizio e di una cognizione vera dei classici), ma anche il Testi, il Ciampoli e lo stesso Chiabrera (cui si riconosce maggior novità e maggior studio, ma incapacità di espressione completa) vengono rifiutati come esempi di un vero rinnovamento, di una nuova tradizione accanto a quella petrarchistica, che il Gravina limita per il suo carattere troppo astratto e platonico, incapace di piacere a tutti (come dovrebbe secondo il Gravina piacere la poesia grande). La poesia contemporanea rimane cosí incerta tra l’orrore del «debacchare» dei marinisti e la sobrietà sterile dei rigidi petrarchisti. E il rinnovamento, pure iniziato quanto a nuovo studio e a rifiuto dei difetti secentisti, non appare davvero realizzato dai primi scrittori della nuova letteratura, Redi, Filicaia, Maggi, De Lemene. Unica speranza, come abbiamo già visto, il Guidi, pretesto al Gravina per insistere ancora su di una poesia arcadica veramente ispirata alla poesia antica[53] (non servile imitazione, non stravagante gusto di novità), e, come questa, mitica e capace di parlare al popolo, nutrita di verità e di sentimenti del tempo, lontana dalla semplice versificazione di cognizioni scientifiche come da un ozioso piacere dei sensi.

Come si vede la proposta di poetica arcadica del Gravina, ricca di intuizioni originali, di aspirazioni generose, se pur non priva di incongruenze e incertezze, aveva una complessità e un tono certamente superiori a quelli della proposta crescimbeniana. E si può dire che il Gravina rappresenta le esigenze piú profonde del rinnovamento antibarocco. Egli sognava un’Arcadia ben diversa da quella che si veniva precisando per opera del Crescimbeni e in accordo con lo spirito prevalente di quel tempo, in cui le parole del severo Gravina non potevano trovare piena accettazione e risuonavano equivoche e forse in parte vanamente acri di fronte alla soddisfazione piú generale per i propri autori, sia nella vasta raggiera di esperienze piú varie in generi, temi e intonazioni, sia soprattutto nella decisa inclinazione idillica e miniaturistica, melodrammatica che veniva raccogliendo nelle sue espressioni il risultato ridotto e istintivamente adeguato delle prime esperienze antibarocche, raffinando e animando quelle qualità di chiarezza, ordine, evidenza, quella cura stilistica attenta, quel gusto di una realtà piccola e ben posseduta che erano già presenti nella centrale disposizione della rivolta antibarocca specie nella letteratura toscana fra Redi e Menzini. Il Gravina invece par quasi in anticipo sul suo tempo (se non proprio nell’anticipo piú profondo di un Vico) ed in effetti la sua stessa proposta classicistica troverà piú vere rispondenze nel neoclassicismo romantico che si precisa nel Foscolo. E ci si può facilmente spiegare come nella lotta fra Crescimbeni e Gravina la vittoria pratica rimanesse al mediocre Custode e non al severo e profondo ribelle. La via proposta dal Gravina (a parte i suoi limiti di intellettualismo, di didascalismo e moralismo non sempre bruciati dal valore fecondo del suo senso vigoroso della poesia) era meno praticabile di quella del Crescimbeni cosí adatta allo spirito e alla possibilità dei suoi contemporanei, alle esigenze letterarie nelle proporzioni limitate e sicure cui quell’epoca effettivamente tendeva. E se la presenza del Gravina ci fa meglio sentire quel generale tono di mediocrità cui non sfugge nessuna manifestazione dell’Arcadia crescimbeniana, insieme ci conferma come solo sulla via del canto melodrammatico (con la sua preparazione nel sonettismo pastorale e anacreontico, nel petrarchismo ridotto in forme di leggiadria e di piacevole rappresentazione della vicenda amorosa, nel minuto esercizio stilistico sempre piú aderente ad una limitata e gustata realtà, ad un ritmo vitale piacevole e brillante) il rinnovamento del buon gusto, che pure aveva suscitato aspirazioni piú vaste, meditazioni e intuizioni piú profonde, ma prive di forze adeguate, potesse concretamente dar vita a una poetica coerente nei propri sviluppi e applicata efficacemente in componimenti artistici.

D’altra parte, se la proposta graviniana non fu accettata in Arcadia e poté esser ripresa con nuovo spirito nello svolgimento piú tardo del neoclassicismo (direttamente e, in parte, insieme alla successiva discussione estetica del Conti, di cui ci occuperemo piú tardi), anche in Arcadia, nel primo Settecento, la lezione graviniana non fu del tutto inefficace sulla generazione successiva al Gravina e al Crescimbeni e particolarmente sul Metastasio e sul Rolli. È anzi proprio nell’insegnamento graviniano – per quanto ridotto secondo l’inclinazione al miniaturismo e al melodrammatico che in quei due poeti prevale – che si spiegano meglio nel primo l’esigenza alla favola organica, alla rappresentazione compatta e articolata, il netto primato della poesia sulla musica (pur nelle condizioni particolari del melodramma) e magari le pretese dell’ammaestramento filosofico in forme popolari, chiare e cantabili, e nell’altro la piú forte ricerca della perspicuitas classica. Una parte almeno del suo insegnamento non andò dunque perduta nei due maggiori esponenti poetici dell’Arcadia che pure derivano le loro posizioni essenziali dallo sviluppo della linea individuata e favorita dal Crescimbeni.

Nell’intreccio di nuovi fermenti estetico-critici e di proposte di poetica sarà ancora da rilevare come uno dei frutti importanti della presa di coscienza arcadica della tradizione del nuovo interesse estetico-critico e, d’altra parte, della nuova esigenza e capacità filologica e storico-erudita, la nuova storiografia letteraria, che troverà poi sviluppo nel secondo Settecento ad opera del Mazzuchelli e soprattutto del Tiraboschi.

Proprio in questo campo appare chiaro come, nel passaggio dal Seicento all’epoca arcadico-razionalistica, si assista ad un rinnovamento deciso se, di fronte all’erudizione piú dispersiva (pur utile come prima preparazione di dati documentari) delle opere dell’Eritreo, del Marucelli, dell’Allacci, dell’Aprosio, la stessa nuova erudizione si poggia su metodi accurati di ricerca e di elaborazione dei materiali[54] e su di una volontà di ricostruzione critica e storica piú cronologicamente esatta e innervata in linee di svolgimento. Come può riconoscersi all’Istoria della volgar poesia del Crescimbeni (arricchita e completata con i volumi di Comentarj intorno all’istoria della volgar poesia), che è certo il primo tentativo di una storiografia letteraria sistematica, anche se la linea di svolgimento della «volgar poesia» (ché solo della poesia e delle sue forme e generi retorici e metrici il Crescimbeni si occupò) è fortemente collegata con la stessa proposta attiva del Custode generale d’Arcadia nei confronti della riforma arcadica, cosí come avviene nelle brevi e vigorose linee di storia della letteratura classica e italiana impostate dal Gravina nella Ragion poetica, che costituiscono veri e propri abbozzi di storia letteraria saldati in prospettive storico-culturali, a delineazione di ambienti e situazioni storico-politiche: sicché per parlare della poesia di Dante e della Commedia il critico e storiografo sentirà il bisogno di illustrare la situazione politica fiorentina, la politica e la morale e teologia dello stesso Dante. Né tale volontà e capacità di fare storia letteraria abbozzata in sintetici quadri culturali e storici e di «periodizzare» la storia della letteratura in fasi ed epoche mancano nella breve rassegna dello svolgimento della poesia italiana dai poeti siciliani all’inizio del Settecento contenuta nel capitolo terzo del primo libro del Della perfetta poesia del Muratori.

E se può apparire spesso sopravvalutato il significato della Idea della storia dell’Italia letteraria (1723) del barese Giacinto Gimma (1668-1735), troppo generica, caotica e priva di saldi concetti storiografici per esser davvero presentata come anticipatrice di piú avanzate esigenze storico-culturali piú integrali e della prospettiva del Tiraboschi (considerazione non solo della poesia ma anche della prosa e in genere della cultura) e di una piú forte idea «nazionale» della letteratura italiana, non saranno comunque da perdere, nei loro forti limiti, né le piú vaghe indicazioni culturali e «patriottiche» di quel monumentale e farraginoso lavoro, né la piú chiusa e retriva volontà di difesa delle glorie italiane che caratterizzano l’opera piú strettamente erudita e bio-bibliografica di Giusto Fontanini nel suo Della eloquenza italiana del 1726. Mentre piú sicuramente potrà rilevarsi l’importanza – per l’organicità, l’ordine, il criterio scientifico con cui vi è organizzato il vasto materiale erudito: qualità corrispondenti ad una mentalità fortemente razionalistica e ad un gusto ugualmente razionalistico e aristotelico – del trattato Della storia e della ragione di ogni poesia (edito fra il 1739 e il 1752, ma preceduto da un primo abbozzo del 1734: Della poesia italiana) del gesuita valtellinese Francesco Saverio Quadrio (1695-1756): opera che, come dice il titolo, si proponeva di trattare di ogni poesia e in realtà della poesia greca, latina e italiana, ma che sull’ultima soprattutto puntava.

Piú monumento della affinata erudizione dell’epoca arcadico-razionalistica che documento di forte interesse storico e critico, lo stesso lavoro del Quadrio rimanda pure ad una implicita proposta di gusto e di poetica (in questo caso fortemente razionalistico-aristotelica): e tanto piú ciò avviene – come dicevo all’inizio – nel caso dell’opera critica e storiografico-letteraria del Muratori, del Crescimbeni, del Gravina.

5. La fondazione dell’Arcadia

Le proposte di riforma del Gravina e del Crescimbeni spiccano, come abbiamo visto, fra le molte che emergono con varia forza e chiarezza dagli scritti teorici e critici, dalle formulazioni del «buon gusto» di tanti scrittori tra fine Seicento e primo Settecento. Ed esse presto vennero a scontrarsi nella vita della nuova accademia, alla cui fondazione, su di una prima e larga base piú generica, uomini diversi come il Gravina e il Crescimbeni, personalità minori meno individuabili, rappresentanti attivi della prearcadia, avevano pure concordemente collaborato, con uno sforzo di organizzazione culturale su scala nazionale che è certo uno dei caratteri importanti dell’Accademia romana e che si riflette in una forma di ricambio fra un centro coordinatore e la rinnovata vita culturale delle varie città italiane: e dunque assai al di là della funzione piú limitata di quella Accademia Reale della mecenatesca Cristina di Svezia, che a Roma (dal 1674 in poi, dopo una prima sua ancor piú gracile vita come Accademia privata o di Camera) aveva pur costituito come un primo e piú generico abbozzo dell’Arcadia e aveva già messo in contatto fra loro personalità della cultura e letteratura romana con rappresentanti della prearcadia toscana e settentrionale – fra gli altri il Menzini e il Guidi – tentando invano (a causa anche della morte dell’ex regina nel 1689) di riassorbire altre «civili conversazioni» di letterati romani in lotta con il «malgusto» barocco, come quella soprattutto dello spoletino Vincenzo Leonio (1650-1720) che diverrà poi il principale collaboratore e «braccio destro» del Crescimbeni nella pratica costituzione dell’Arcadia, nella elaborazione della convenzione pastorale (appoggiata all’Arcadia del Sannazaro e agli esemplari della poesia bucolica classica) oltreché nell’appoggio di un petrarchismo ripreso attraverso l’esempio del lirico cinquecentesco Di Costanzo, e delle sue forme piú rilevate, «spiritose» e animate.

Fu esattamente il 5 ottobre 1690 che ebbe costituzione ufficiale la Ragunanza degli Arcadi, nel giardino dei Padri Riformati a San Pietro in Montorio. Lí erano convenuti quattordici scrittori: tra i quali i piú autorevoli erano, oltre il Crescimbeni e il Leonio, Gian Vincenzo Gravina da Reggiano, Silvio Stampiglia da Civita Latina e Giambattista Zappi da Imola. Degli altri nove, due erano torinesi (Paolo Coardi e Carlo Tommaso Maillard di Tournon, antenato dell’Alfieri), due genovesi (Pompeo Figari e Paolo Antonio Del Negro), due toscani (Melchiorre Maggi fiorentino e Agostino Maria Taja senese), uno romano (Jacopo Vicinelli), uno orvietano (Paolo Antonio Viti) e uno di Spello (Giuseppe Paolucci). Era dunque rappresentata quasi tutta l’Italia, ed è questa una circostanza da tener presente per capire i caratteri e i successivi svolgimenti della letteratura arcadica.

Tra il 1690 e il 1704 molti altri nomi si aggiunsero a quelli dei quattordici fondatori. Tra gli altri ricordiamo il Menzini, il Salvini, il Redi, il Filicaia, il Guidi, il De Lemene, il Magalotti, lo Zeno, il Maffei e il Muratori.

Essi presero nomi pastorali e sottoscrissero un diploma nel quale veniva nominato Custode generale Giovan Mario Crescimbeni, in Arcadia Alfesibeo Cario. Quindi si procedette – in ossequio ad un artificioso quanto complesso cerimoniale – alla spartizione teorica delle campagne, scegliendosi prima quelle dell’Arcadia propriamente detta e poi – dato il numero sovrabbondante dei soci – quelle della Beozia e della Tessaglia.

L’insegna dell’Arcadia fu la siringa di Pan coronata di lauro e pino; Gesú Bambino, che aveva ricevuto tra i primi doni quelli dei pastori, fu onorato come sommo protettore; la scomparsa Cristina di Svezia venne proclamata, invece, patrona o «basilissa». Un «libro d’oro» raccoglieva le norme amministrative e i nomi degli arcadi, i quali denominarono Bosco Parrasio il luogo dei loro raduni, che fu in principio il bosco dei Padri Riformati in San Pietro in Montorio poi, per diversi anni, mutò sito dall’una all’altra villa principesca, finché Giovanni v di Portogallo, acclamato arcade, donò all’Accademia 4000 scudi e con essi fu comperato un terreno sul Gianicolo, dove nel 1726 gli arcadi presero stabile dimora. Serbatoio si chiamò poi il luogo dove si conservavano gli archivi dell’Accademia (i componimenti recitati dagli arcadi, il catalogo degli accademici, la cronaca delle vicende dell’Istituzione, i sigilli, i ritratti) e fu dapprima in casa del Custode, poi in diversi altri edifici (alla Cancelleria, alla Sapienza e altrove), e vi si tenevano le tornate d’inverno, quando il Bosco Parrasio era chiuso.

L’Accademia divenne assai presto numerosa, sicché già nel 1699 dovette «dedurre» otto «colonie»: un’istituzione che, al di là della consueta finzione pastorale, confermava il carattere nazionale dell’Arcadia. Tra le prime colonie si ricordano la Forzata di Arezzo, l’Elvia di Macerata, l’Animosa di Venezia, la Renia di Bologna.

Inoltre, fin dai primi anni, si sentí il bisogno di raccogliere in leggi le costumanze dell’Arcadia e il compito di redigerle fu affidato al Gravina, che le compilò nello stile lapidario delle XII tavole e le lesse, il 20 maggio 1696, davanti al consesso degli arcadi adunati negli Orti farnesiani. Dieci furono le leggi, incise su tavole di marmo, ma due sole toccavano gli scopi letterari dell’Accademia: la settima che vietava la lettura di componimenti che non rispondessero al buon gusto letterario ed escludeva i carmi osceni, irreligiosi, empi e i libelli «famosi» (Mala carmina et famosa, obscaena, superstitiosa, impiave scripta ne pronunciantor), l’ottava che prescriveva che i costumi pastorali fossero osservati sempre nelle adunanze e negli uffici d’Arcadia, ma non necessariamente nelle prose e nelle poesie (In coetu et rebus Arcadicis pastoritius mos perpetuo. In carminibus autem et orationibus quantum res fert adihibetor).

L’urto pratico fra le istanze del Gravina in sede estetico-pragmatica ed anche in merito alla vita dell’Accademia, che egli avrebbe voluto piú democratica e meno gerarchica (e meno legata alla curia romana e alla sua politica culturale) e quelle del Crescimbeni ebbe luogo a vari anni di distanza dalla fondazione dell’Arcadia – esattamente nel 1711, quando con il Gravina uscirono dall’Accademia altri arcadi e costituirono un’altra accademia che nel 1714 prese il nome di Accademia dei Quirini e accolse, fra gli altri, il giovanissimo Metastasio, il Rolli, e quel Domenico Ottavio Petrosellini che sullo scisma arcadico scrisse un curioso poema eroicomico, il Gianmaria, ovvero l’Arcadia liberata. Ma – mentre con la morte del Gravina la nuova accademia terminò la sua vita difficile e stentata e gli scismatici rientrarono in Arcadia – piú di questo episodio clamoroso, ma sterile, conta rilevare, come abbiamo fatto, lo scontro di gusto e di istanze estetico-culturali che era già implicito nelle divergenze fra la proposta del Gravina e quella del Crescimbeni e che, con la vittoria di questa, ben evidenzia il passaggio nella letteratura di primo Settecento tra una prima fase piú complessa e difficile (e magari piú promettente e tesa da piú forti esigenze di profondi rinnovamenti vive nella zona prearcadica) e quella in cui la letteratura arcadica – pur con diversità e riflessi delle polemiche e diversità iniziali – praticamente visse realizzandosi sulla via piú praticabile e piú omogenea alle concrete possibilità della prevalente mentalità arcadico-razionalistica: come ben può vedersi anzitutto nella descrizione dello sviluppo della lirica arcadica, anche nei suoi rapporti con l’esemplarità del Petrarca e del petrarchismo.

6. Il petrarchismo arcadico e la poesia del Manfredi

Il gruppo romano dei fondatori dell’Arcadia, il Gravina e lo stesso Foscolo convalidano il giudizio in base al quale la maggior parte degli arcadi, dopo l’uso del petrarchismo contro il barocco, veniva interpretando l’essenziale lezione petrarchesca soprattutto attraverso i petrarchisti cinquecenteschi, o scegliendo nella tematica petrarchesca i motivi piú adatti a soluzioni idilliche e leggiadramente galanti, o riducendo alcuni motivi drammatici in pretesti di animazione melodrammatica: come il motivo della nave in cerca del porto nella tempesta, che tornerà infinite volte nelle rime arcadiche con una intonazione ben diversa da quella del testo petrarchesco e come motivo di piacevole incertezza, di melodrammatico contrasto a cui è sottinteso e reso esplicito un sostanziale lieto fine.

Ma se il petrarchismo arcadico è quanto mai dubbio nei suoi rapporti con il modello petrarchesco[55] e lo risente attraverso «illegiadrimenti» e rilievi di movimento piú brioso in cui si serve piuttosto di petrarchisti di avanzato Cinquecento, sarebbe assurdo negare l’enorme importanza che il petrarchismo ha avuto nella reazione al secentismo prima, nella costituzione della poetica arcadica poi, soprattutto come scuola di espressione e di indagine dei sentimenti. Né mancò un gruppo di arcadi che agí a lungo sotto la piú precisa insegna petrarchesca trovando poi un teorico del petrarchismo ortodosso in Biagio Schiavo, autore del trattato il Filarete (1735).

Si tratta del gruppo dei petrarchisti (Manfredi, Ghedini, i fratelli Zanotti), bolognesi o, come il Lazzarini, collegati con i bolognesi: gruppo le cui idealità etico-letterarie[56] trovano espressione poetica nel solo Manfredi.

Eustachio Manfredi era nato nel 1674 a Bologna, dove passò tutta la sua vita di scienziato e di letterato, ad eccezione di alcuni viaggi a Roma, a Lucca e in Romagna, chiamato come famoso ingegnere ad infrenare fiumi. Quando morí, nel 1739, tutti i verseggiatori dell’Arcadia bolognese scrissero poesie in suo onore, riconoscendogli unanimemente un’eccezionale posizione di caposcuola e di rinnovatore del «buon gusto»[57].

Nell’ambiente culturale bolognese la nuova colonia arcadica Renia (da cui poi dovevano svolgersi personalità variamente importanti come l’Algarotti e il Savioli) fu particolarmente notevole per il totale distacco dal barocco e nella sua fedeltà al modello petrarchesco e nel particolare culto della correttezza, della purezza formale e della limpida chiarezza dei sentimenti e della loro espressione.

Né si pensi che tale culto del Petrarca e della sua complessità spirituale e formale sia frutto di un atteggiamento letterario senza contatti con la vita, ché, anzi, proprio nel vivace ambiente bolognese, questi letterati sentirono piú d’altri il bisogno di legare questa loro esperienza di finezza e di purezza sentimentale e poetica ad una vita di relazioni e di amicizie in una città aperta ed attiva, di esprimere, in quella trama delicata di echi letterari illustri e adeguati alla loro aspirazione spirituale e poetica, una loro vita di affetti.

Sicché in generale, per quel che riguarda la disposizione di questi arcadi bolognesi e in particolare per il Manfredi – l’unico poeta del gruppo degno di vera considerazione critica –, si dovrà soprattutto parlare di una singolare animazione sottile e limpida, ma non riducibile a semplice intonazione discorsiva e a freddo esercizio di recupero di una luminosità attinta in parole lontane ed estranee alla vita degli stessi autori.

Il Manfredi ebbe una breve stagione poetica e mostrò la sua serietà morale e letteraria anche nel suo sapersi limitare, nel non cedere a quella tentazione di comporre versi, che per molti arcadi diveniva una convenzione indipendente da qualsiasi esigenza interna, quasi un dovere di società[58]. Il Manfredi scrisse poesie finché ebbe qualcosa da dire di suo e, quando il suo piccolo nucleo ispirativo fu esaurito, abbandonò anche le forme piú laterali di poesia di omaggio e di occasione.

Coincide con il periodo poetico anche il periodo dell’attività polemica, culminata nella lettera all’Orsi[59], nella quale insiste molto acutamente sulla diversità del linguaggio poetico italiano – eletto e distinto sostanzialmente dalla prosa – da quello francese (prosa ritmata) in cui i pensieri rimangono «o troppo ignudi e spogliati almeno quasi sempre di immagini o sono rivestiti di certe riflessioni che hanno del metafisico e del sottile», e fa osservazioni sempre fini sullo stile e la poesia, che sono fra l’altro da considerare come introduzione alla stessa opera poetica del Manfredi.

Nella sua produzione non molto abbondante non mancano anche poesie d’occasione che meno possono interessarci e che pure hanno sempre una intima compostezza e una certa freschezza.

Anche i sonetti di carattere patriottico e politico, come quello Per la nascita del principe di Piemonte, hanno una misura che riflette un atteggiamento sempre dignitoso e controllato, come equilibrio di accenti e proporzioni rivelano alcune ecloghe e capitoli scambiati con il Martello e con Gianpietro Zanotti. E le stesse esercitazioni sottilissime e raffinate dei due canti Del Paradiso valgono a indicarci la sua padronanza del linguaggio e di una precisa gamma di toni delicati e spirituali.

Ma le qualità che emergono in questa produzione secondaria si organizzano e prendono valore espressivo piú intimo quando in esse si traduce la gentile nostalgia d’amore e la delicata commozione del suo spirito raffinato e pensoso, di fronte alla scomparsa di vaghe figure giovanili, all’abbandono del mondo per la vita claustrale di fanciulle vagheggiate nella loro pura freschezza o amate nel momento piú intenso della vita sentimentale del Manfredi.

È il tema della monacazione che, poi logorato da una consuetudine tutta esteriore, appare nel Manfredi fresco e nuovo, reso poetico da un sospiro di nostalgia per una fuga dal mondo di dolci figure giovanili unito ad una sincera nota di ammirazione e di interesse per la vita spirituale che si svolgeva in quelle candide anime femminili.

Quella disposizione piú generale dell’animo delicato del Manfredi a commuoversi e a reagire poeticamente a contatto con situazioni di melanconica purezza, e a raccogliere in una trama sobria e nitida di coerenti svolgimenti di disegno musicale quella sua limpida commozione, si trova ben chiara nella canzone Per una monaca di casa Davia, in cui il poeta lega il ricordo della morte del giovinetto Davia all’abbandono del mondo da parte della sorella che prende il velo: e se l’«atroce imago» di quella morte giovanile, insieme a rapidi accenni piú solenni ed enfatici, porta in quel delicatissimo tessuto una certa stonatura, anche sul tema della monacazione non mancano variazioni piú esterne, forme di leggiadria piú convenzionale (come nel sonetto pure assai piacevole Per monaca: «Le ninfe che pei colli e le foreste») e piú dirette applicazioni di particolari schemi petrarchistici e stilnovistici.

Ma nei momenti piú ispirati quel tema raccoglie le aspirazioni piú intime della poesia manfrediana e le varie monacazioni richiamano la essenziale vicenda amorosa del poeta e si arricchiscono dei suoi echi, delle sue vibrazioni nostalgiche.

Breve vicenda d’amore tutta consegnata alla poesia, in cui il Manfredi piú direttamente cantò la monacazione di Giulia Caterina Vandi, la fanciulla bolognese da lui amata.

Documenti artistici di questo centrale momento della sua vita poetica sono la canzone Per la monaca Giulia Caterina Vandi e il sonetto che qui riporto:

Vergini, che pensose a lenti passi

da grande ufficio e pio tornar mostrate,

dipinta avendo in volto la pietate

e piú negli occhi lagrimosi e bassi,

dov’è colei, che fra tutt’altre stassi

quasi sol di bellezza e d’onestate,

al cui chiaro splendor l’alme ben nate

tutte scopron le vie d’onde al ciel vassi?

Rispondon quelle: ah non sperar piú mai

fra noi vederla! Oggi il bel lume è spento

al mondo, che per lei fu lieto assai.

Su la soglia d’un chiostro ogni ornamento

sparso, e gli ostri, e le gemme al suol vedrai,

e il bel crin d’oro se ne porta il vento.[60]

Qui ben si avvertono la decisa superiorità rispetto alle esercitazioni petrarchistiche piú impersonali e il proficuo uso di suggerimenti e persino di precise parole del Petrarca, come elementi di un linguaggio letterario e pur personale, animato com’è intimamente da un sentimento poetico che è inconfondibilmente manfrediano e, rispetto al Petrarca, velato quasi in un suono piú sottile e sommesso.

Ancora piú poeticamente interessante e impegnativa e storicamente significativa per la sua decisa vittoria su ogni vero residuo barocco è la canzone sopra citata. Scritta nel 1700, essa nasce da uno stato d’animo piú complesso di quello da cui ebbe origine il sonetto e dal confluire – insieme a motivi di amore e di rimpianto – di motivi piú raffinati e sottili di ammirazione e consonanza spirituale, sorretti, al di là dell’esempio petrarchesco, anche da ricordi stilnovistici e da omogenei elementi neoplatonici cinquecenteschi.

Vi è dunque, alla base di una storia intima intensamente sentita, una complessa situazione poetica in cui la rievocazione dell’amore piú mondano, depurato di ogni minimo peso di turbamento sensuale, si fonde con un impeto di ammirazione per l’altezza dell’anima dell’amata, che nella sua decisione ha dimostrato la sua natura superiore, insieme a un particolare entusiasmo del poeta che si compiace di cantare cose alte e nuove, di rivelare le qualità celesti della donna, da tempo da lui scoperte proprio mercé l’amore che gli permise di vedere con piú chiarezza in quell’animo.

E se la storia della donna costituisce la linea piú evidente nello svolgimento cosí organico e limpido della canzone, la linea piú interna è costituita dalla storia dell’animo del poeta e dalla costante trepida vibrazione che riscontriamo nella narrazione di ciò che in lui avviene nel rievocare la vicenda terrena e celeste della fanciulla amata[61].

I motivi essenziali si pongono nella prima strofa: il poeta si fa rivelatore della potenziale vocazione al chiostro della donna, che agli altri uomini non appariva prima manifesta nella sua bellezza, nella sua luce «altera e onesta», nei «suoi santi lumi accesi».

Lui solo ha compreso tale vocazione per mezzo del suo amore («mercé di chi innalzommi») che ora gli permette di cantare cose che lui solo sa. Questa posizione di orgoglio si manifesta con decisione calma, con lieve impeto nella chiusa di questa strofa che è certamente la base di tutta la canzone, come è anche modello delle altre strofe, inizio esemplare di un discorso poetico cosí intimo, coerente, intonato, da richiedere lettori attenti e capaci di ricreare la condizione particolare di quest’animo poetico e la singolare impostazione di un linguaggio cosí letterario e contemporaneamente cosí ravvivato da questo delicato fervore, che si giova e si arricchisce delle suggestioni di purezza e fierezza, di ardore e di tenero che esso ridesta in parole che diversamente ne furono già pervase in altri testi poetici della tradizione petrarchesca.

Nella seconda strofa la discesa della donna dal cielo è finalmente realizzata in poesia con una leggerezza di movimento e di accento, con un fluire di linee agevole, ma non privo di un’intima sospensione pensosa che lo rende tanto piú eletto ed efficace:

la qual pronta e leggera

di mano a Dio, lui ringraziando, uscia,

e raccogliea per via,

di questa spera discendendo in quella,

ciò ch’arde di piú puro in ogni stella.

Quell’ardore e quella purezza cosí delicatamente vibranti in quest’ultimo verso trovano la loro espressione piú sensibile e piú poeticamente viva nella terza strofa, in cui il poeta, dopo una lieve enfasi iniziale, esprime l’animazione della natura alla viva presenza della bella donna, e passa da toni di attenuato ardore platonico alle sottili gradazioni di colori sensibili e trasparenti in una soave e sottile estasi visiva:

... e in ciò dire ogni stelo

si fea piú verde e vago,

e l’aer piú sereno e piú giocondo.

Felice il suol, cui il pondo

premea del bel piè bianco,

o del giovenil fianco,

o percotea lo sfavillar degli occhi!

Ch’ivi i fior visti o tocchi

intendean lor bellezza, e che que’ rai

muovean piú d’alto che dal sole assai!

Nella quarta strofa si rivelano poi gli effetti della donna non piú sulla natura (animata dalla sua presenza sino alla miracolosa capacità dei fiori di intendere la bellezza e l’origine divina degli sguardi luminosi della Vandi), ma sugli uomini, la cui trepidazione, tra dolcezza e pena sottile, anima la breve scena.

Mentre nella strofa quinta il poeta ci conduce piú al centro della sua storia sentimentale, e il fervore gentile del poeta che Amore ha reso insieme innamorato e consapevole della natura celeste della donna trova un’espressione di particolare finezza nel colloquio complesso e perfettamente delineato del poeta con Amore – su di un piglio piú deciso[62] – e con gli occhi della donna su di una piega piú blanda e tenera:

Qual io mi fessi allora,

quando il leggiadro aspetto

pien di sua luce agli occhi miei s’offrio,

Amor, tu ’l sai...

Ma piú d’Amore ancora

ben voi stesse il sapete,

luci beate e liete...

E la sesta strofa, se rivela una certa fatica, derivata da un movimento piú difficile e, tutto sommato, meno legato ai motivi centrali della canzone – il poeta non ha saputo seguire l’indicazione di quei «soavi innamorati sguardi» che lo chiamavano alla perfezione religiosa e mostravano come questa nella donna avesse per suo vero termine la vita monastica –, essa serve però come base di slancio per l’ultima, in cui il ritmo riacquista un fervore piú intimo: e tutto un movimento ascensionale, sempre piú intenso, anche se sempre misurato e dominato, coincide con l’apoteosi della donna, la cui monacazione è senz’altro immaginata come ascensione al cielo:

Vedete or come accesa

d’alme faville e nove

costei corre a compir l’alto disegno!

Vedi, Amor, quanta in lei dolcezza piove,

qual si fa il Paradiso, e qual ne resta

il basso mondo, che di lei fu indegno!

Vedi il beato regno

qual luogo alto le appresta,

e in lei dal cielo ogni pupilla intesa

confortarla a l’impresa;

odi gli spirti casti

gridarle: assai tardasti;

ascendi, o fra di noi tanto aspettata,

felice alma ben nata!

Si volge ella a dir pur ch’altri la siegua,

poi si mesce fra i lampi e si dilegua.

Canzon, se d’ardir troppo alcun ti sgrida,

digli che a te non creda,

ma venga in fin che puote egli e la veda.

Uomini e Amore sono chiamati a vedere quest’ultima parte della vita della donna, a udire gli spiriti casti di altre fanciulle che han preso il velo, le quali sollecitano la sua ascensione; e il movimento si arricchisce e si svolge con un ritmo tutt’altro che esteriore e scenografico, come nell’ultimo gesto della donna:

si volge ella a dir pur ch’altri la siegua,

poi si mesce fra i lampi, e si dilegua...

E il congedo cosí nitido e lieve vibra pure, nella sua apparente genericità, di un’eco dell’amore che, mentre aiuta il poeta a comprendere l’altezza della decisione della donna, porta anche un moto di nostalgia per quella bellezza che si allontana, per quel perduto «piacere degli occhi», cosí essenziale anche nella tradizione petrarchistica platonica.

La canzone per la Vandi, se non è il capolavoro che vi videro gli uomini del Settecento, è certamente uno dei documenti poetici piú notevoli, un’alta prova di stile animata da una sottile ma sincera ispirazione, in una condizione di Arcadia piú originalmente fedele al modello petrarchesco, piú interiormente attenta all’analisi e all’espressione di sentimenti raffinati e sinceri.

7. Sviluppo della poetica arcadica nella lirica del primo Settecento

Il momento decisivo dello sviluppo della poetica arcadica nei primi anni del Settecento è costituito – come abbiamo visto – dall’urto fra le due proposte del Gravina e del Crescimbeni e dalla pratica vittoria di quella del secondo.

E certo la sconfitta del Gravina può venir rappresentata come uno scacco dell’impegno piú serio e di una volontà di poesia che implicava il riferimento alto alla grande poesia, un piú intenso rapporto poesia-cultura e fermenti estetici che trovano poi ripresa nel pensiero e nelle prospettive del Conti e fin nell’originale poetica neoclassico-romantica del Foscolo.

Ma occorre ancora ben rilevare come la proposta graviniana di un neoclassicismo severo, di una ripresa della poesia all’altezza degli esempi di Omero, dei tragici greci, di Dante e dell’Ariosto, fosse comunque sproporzionata alle effettive possibilità e alle piú vive esigenze del gusto e della sentimentalità arcadica. E quindi storicamente inattuabile o attuabile in una retorica dell’eroismo e dell’impeto pindarico cui non corrispondeva un adeguato animo tragico-lirico vissuto in una coerente dimensione di storia e di società.

In realtà l’Arcadia di primo Settecento vive la sua vita piú compatta, limitata, insidiata da frivolezza e da pesanti elementi di conformismo, ma piú autentica e sincera, in una direzione media e centrale di socievolezza, di canto, di «prudente» ricostituzione di valori morali ed estetici fra razionalismo e buon senso, fra saggezza ed edonismo, di cui essa traduceva gli elementi piú generali di chiarezza, di comunicabilità, in una tendenza letteraria ben lontana dalle proposte di poesia mitica e didascalica, solenne e severa del Gravina.

Sí che, esaurita o diversamente ridotta e risolta la tensione di tipo morale, religioso, eroico della fase di fine Seicento, la linea che viene prevalendo in Arcadia è quella appoggiata all’attività del Leonio e dei sonettisti romani (Somai, Stampiglia, Paolucci, Leers, i due Passerini), e alla proposta del Crescimbeni che, pur con una serie di schemi, di convenzioni, di esempi che paiono soprattutto puntelli e sostegni provvisori, destinati a cadere di fronte al crescere di una effettiva vitalità di costume, di sentimentalità, di letteratura, sosteneva un piú sicuro incanalamento delle centrali e piú genuine tendenze miniaturistiche, idilliche e patetiche della società letteraria arcadica e delle sue esigenze di espressione poetica, «leggiadra» e «gentile», di una sentimentalità e di un senso della vita volti soprattutto ad una interpretazione saggia, edonistica, idillica e patetica, del ritmo vitale entro un gusto di rapporti umani, di colloquio, di familiarità in cui prendono particolare vigore i valori socievoli di cortesia, affabilità, grazia.

Nella parte teorica, nella Bellezza della volgar poesia, il Crescimbeni spostava chiaramente l’accento sul diletto contrapposto all’utile, sulle bellezze «esterne» contrapposte alle bellezze «interne» della poesia, sul piacevole insieme e sulla cura stilistica; come nella parte storica la sua interpretazione della tradizione, che punta sulla dignità, autonomia e continuità della letteratura e della lingua italiana, si precisa nella doppia linea esemplare, per la lirica, del petrarchismo e di un classicismo moderato che coincide con l’esempio chiabreresco.

Alla luce di una poetica della correttezza e della «leggiadria», della regolarità ragionevole e dell’animazione piacevole, il Crescimbeni codificava cosí le esigenze piú coerenti all’esercizio già in parte attuato e agli ideali letterari e di costume del gruppo centrale dell’Arcadia romana e le appoggiava alla proposta di un petrarchismo «illeggiadrito» e di un classicismo miniaturistico[63], nonché alla strenua difesa della rima[64], mentre energicamente rifiutava una poesia che puntasse soprattutto sulla brusca novità dei contenuti morali e religiosi, meno curando le esigenze del linguaggio poetico[65].

E se il Crescimbeni si preoccupava anche di ammettere casi di poesia grandiosa, la sua scelta piú genuina puntava sulla via del sonettismo[66] petrarchistico-anacreontico e della canzonetta di origine chiabreresca.

E cosí nell’attività letteraria dell’Arcadia sempre piú prevalgono sonetti e canzoni idillico-pastorali, espressione dell’animo piú sincero di un’epoca negata a veri sentimenti eroici, tragici, appassionati.

E quanta fatica e fastidio si provano leggendo i sonetti e le canzoni sulle guerre contro i Turchi e sulle vittorie di Eugenio di Savoia[67], le «corone», e le «ghirlande» di poesie in onore di principi, re, papi, o le esercitazioni sul tema guidiano delle grandiose rovine romane[68] o quelle su temi religiosi magari travestiti pastoralmente[69].

Sempre piú la poetica arcadica restringeva e consolidava i suoi interessi e corrispondeva al limite di una società che realizzava il proprio animo piú vero nel gusto del vivere socievole, nel possesso di una piccola e piacevole realtà, nello svolgimento e nell’espressione di una patetica vita di sentimenti.

Evoluzione del gusto che corrisponde al consolidarsi delle piú generali condizioni della civiltà settecentesca in formazione, con tutta una tendenza al passaggio al vero e proprio «rococò». E cosí sempre piú sonetti e canzonette prevalgono sulle canzoni solenni e complesse, sempre piú si affermano in esse la lieve tensione, il patetico tormento di un edonismo non volgare, col quale si esaltano le stagioni, le vicende dolci-amare dell’amore, o sentimenti autobiograficamente dolorosi attenuati in una sentimentalità già aliena dall’estremo della passione e del dramma.

Tanto che, mentre sonetti e canzonette prendono sempre piú i caratteri di un’agile miniatura[70], la tendenza al melodrammatico, alla scenetta patetica, tenera e melodica si afferma persino nei casi in cui l’analisi dei sentimenti, stimolata dalla scuola del Petrarca, poteva indurre a piú profondi scavi psicologici, o dove gli elementi volontariamente piú drammatici e morali richiedevano adeguati svolgimenti di tipo drammatico e solenne.

Si consideri a questo proposito la riduzione in scena e in figurine patetiche e melodrammatiche di situazioni petrarchesche, come nella imitazione di Chiare, fresche e dolci acque da parte del Lavaiana[71], in cui il poeta e la donna amata diventano figurine da melodramma su di una scena pittoresca e aggraziata, e il linguaggio, esemplato su quello petrarchesco, è risolto in forme leggiadre, tendenti al cantabile.

Tendenze queste che possono risolversi anche in un tono melodrammatico e patetico-idillico piú schietto, come nel caso della stessa canzone autobiografica[72] di Fidalma Partenide (Petronilla Paolini Massimi, nata a Tagliacozzo nel 1663 e morta a Roma nel 1726), che non solo tentava di trasporre in lirica costruzione complessa la sua esperienza femminile sofferta e sfortunata (l’assassinio del padre, lo sposalizio forzato al vecchio castellano di Castel Sant’Angelo, Francesco Massimi, la segregazione nella fortezza, la morte del figlio), ma proprio in questa sua volontà di storia drammatica e di contrasto tra il destino e la forza del suo animo, confortato dalla religione e da una stoica saggezza, essa esprimeva la aspirazione ad una poesia alta, risentita, alimentata da una pratica di vita etico-religiosa cui non mancavano gli stimoli del Guidi presenti anche ad altre rimatrici dell’ambiente aristocratico romano, come la Capizucchi e la Grillo.

Ma a chi ben guardi la canzone autobiografica non può non apparire spesso una diversa realtà di tono e di atteggiamento piú istintivi e «storici» attraverso l’affiorare qua e là di una venatura melodica che intenerisce l’articolazione severa della composizione. Cosí come, nella stessa costruzione di scene dolorose della sua vita infelice, Fidalma Partenide è come spinta da una istintiva tendenza del gusto e del costume sentimentale a tradurre dramma in «melodramma», con l’accrescimento di una sensibilità vibrante e patetica, di una collaborazione di forme di linguaggio drammatico ad una vibrazione che intimamente prepara lo slancio rasserenato del «lieto fine».

Come avviene particolarmente nella scena della padrona-prigioniera di Castel Sant’Angelo che «passeggia sulle funeste scene» e «bacia le catene» e sfoga col canto il pianto e le angosce nel «chiuso orrore» della «rigida prigione»:

Sotto titolo illustre in chiuso orrore

varcai le piú bell’ore,

e passeggiai sulle funeste scene;

pur baciai le catene

e in rigida prigion sfogai col canto,

qual dolente usignol, l’angosce e il pianto.[73]

È certo che la Massimi viveva con sincerità un atteggiamento etico-religioso, ma, ripeto, un’irresistibile inclinazione del gusto la spinge a tradurre gli elementi di dramma e di passione nelle loro forme piú schiette, e «storiche», nella loro possibilità patetica e melodica, e la lirica tende a trasformarsi in rappresentazione scenica, in condizione sinteticamente «melodrammatica».

Ché, pur tenendo alla distinzione di una coscienza di generi nella letteratura arcadica, il tono melodrammatico sembra guidare centralmente lo stesso svolgimento della lirica arcadica, e nella stessa tragedia, del resto, proprio i prodotti piú tipici di questa fase arcadica sono quelli in cui la tragedia maschera un effettivo melodramma. Né par lecito tentare un recupero in chiave drammatica e appassionatamente dolorosa (magari parlando, come pur si è fatto, del Dolore ungarettiano!) del piccolo canzoniere di Pier Jacopo Martello per la morte del figlioletto Osmino, in cui la rievocazione sentimentalmente sincera delle grazie incantevoli del fanciullo precocemente strappato agli affetti familiari si traduce effettivamente in una gentile e melodica rappresentazione miniaturistica di perduti momenti felici, di vani, immaginari compensi nel sogno, di presentimenti della morte, vagheggiati nella loro delicata piccola realtà struggente e dolce, nella loro acuta vivacità psicologica risolta nella grazia dolente, consolatrice del canto, alimentata dalle consonanze con echi letterari petrarcheschi e dal riferimento costante a una natura leggiadra e risentita attraverso il filtro arcadico della poesia della letteratura e del linguaggio poetico misurato e composto, forma esso stesso di civiltà e di possesso degli affetti contro ogni irruenza esagitata ed ogni immediatezza volgare ed enfatica.

Sarà cosí da intendere correttamente la gentilezza patetica e sottilmente melodrammatica e «pastorale» dei sonetti che descrivono la morte del fanciulletto o di quello che anima la serie dei presentimenti della morte di Osmino, riportandoli a una dimensione coerente di piccola realtà quotidiana e avviandoli senza sforzo alla finale costatazione sulla caducità della pace e della felicità dei mortali, cosí dolente e insieme affabile e smorzata:

Cadde il fanciul sotto destrier fatale,

che nol premé, quasi pietà n’avesse;

e lui fuggío, scioltosi il filo all’ale,

bel calderin, che a sue delizie elesse.

Vetro ei spezzò suo consigliero, al quale

sempre o il collo si cinse, o il crin corresse:

e dalle mense (ah inavveduto!) il sale

versò dal desco in sulle mense istesse.

Sul natío letticciuol pose una face:

dall’elce cava uscí notturna, amara

voce d’augel, che i mali altrui non tace.

E dir parve: a grand’uopo il cuor prepara:

non speri uom lungamente in terra pace:

vuolsi a chi men vorresti e pianto, e bara.[74]

E cosí sarà da leggere – appunto evitando la tentazione di immaginare forti slanci mistici e appassionati dove domina la grazia affettuosa e il piacere sottile del quadro a tinte tenui, della voce tenera e placata, di un pensiero di paradiso candido e fanciullesco nel finissimo dialogo finale – il sonetto che piú può dare la misura delle capacità artistiche di questo intelligente e sensibile scrittore che tanta parte ha avuto nella vita piú complessa e matura dell’Arcadia piú consapevole e meno velleitaria:

Odo una voce tenera d’argento,

donde uscita non so, chiamarmi a nome.

Che sei? non veggio altro che l’onda e il vento

del circostante allor scuoter le chiome.

E pur me novamente avvien che nome

il vicino invisibile concento,

onde in petto destarmi, e non so come,

amore insieme e maraviglia io sento.

Ah sei tu, che a me riedi, o piccol figlio?

Io non scerneva il candido tuo aspetto

da quello, ove ti stai, cespo di giglio.

Te rende forse il buon paterno affetto

a mie sorti compagno in questo esiglio?

No, padre; io te nella mia patria aspetto.

Mentre sulla stessa via della tematica religiosa e amoroso-religiosa, di fronte al piú sincero scatto morale di un Maggi o alla nobile gentilezza spirituale di un Manfredi, verrà prevalendo (sulla via aperta dal De Lemene) il dolciastro bamboleggiamento pastoralgesuitico di rimatori come il piemontese Giambattista Cotta (1668-1738), autore, fra l’altro, di un sonetto su Gesú bambino. Ben in accordo con la prospettiva di tanta piccola pittura del tempo, insopportabile per la sua voluta pietas fanciullesca e il suo piccolo realismo sdolcinato intorno alla scenetta di Gesú bambino e della Madonna che ne lava le pezze e con il famoso poemetto arcadico-gesuitico, in latino, del Ceva (1649-1736): quel Puer Jesus che fu poi preso come rappresentativo della vuotaggine arcadica e della debilitazione della nostra letteratura ad opera dei gesuiti e che pur mostra, in quella direzione di spiritualità e devozione rugiadosa, le qualità artigianali di una letteratura sempre assai scaltrita nel disegno miniaturistico di piccole azioni e piccole scene, anche se lontana dal piú nitido e vivace miniaturismo che viene emergendo sulla via della lirica amorosa e anacreontica e che ancor piú si preciserà – in un contesto di ragioni non solo letterarie – all’altezza della piú forte entrata in azione della componente classicistico-rococò.

Ben piú chiara di quella, sopra ricordata, della Massimi è certo la situazione dell’altra nota rimatrice dell’Arcadia romana: Faustina Maratti Zappi (Roma 1680-1745), la celebre Aglauro Cidonia, figlia del pittore Carlo Maratta, che i contemporanei esaltarono come un singolare incontro di bellezza e virtú, come esemplare voce di donna che sapeva partecipare alla ricostruzione di una società e di una letteratura che davano grande importanza alla presenza delle donne come essenziale polo di un dialogo inteso entro nuovi rapporti familiari e socievoli.

Sicché ben si comprende come il fascino di Aglauro si arricchisse anche della risonanza della sua storia biografica, fra la nota vicenda del ratto tentato, nel 1703, da Giangiorgio Sforza Cesarini e fallito mercé la virtuosa resistenza della «nuova e piú avventurata Lucrezia», la fedeltà felice al marito, il poeta Giambattista Zappi, la loro vita intensamente familiare e socievole di coppia coniugale «onesta e moderna», e poi magari le sventure della morte del figlio Rinaldo e del marito e la persecuzione calunniosa da parte dei parenti del mancato seduttore.

Autrice di freschi sonetti patetici e melodici, essa rivela drammatiche ed eroiche velleità nei sonetti storico-eroici, sproporzionati alle vere qualità e possibilità della rimatrice, la quale, ben piú congenialmente anche alle esigenze piú schiette del suo tempo e della sua società, poteva invece tradurre i suoi sentimenti in forme di agile canto e di fresca rappresentazione di stati d’animo.

Non la via del rilievo energico e drammatico della passione e della virtú eroica (tentata soprattutto nella serie di sonetti esaltanti le virtuose ed eroiche donne dell’antica Roma) le era aperta, ma quella di un’animazione vibrante, patetico-melodica, che essa realizza nei suoi sonetti piú schiettamente arcadici, in accordo con la tendenza piú vera del gusto e della sentimentalità arcadica e nella stessa piú adeguata utilizzazione di una scuola letteraria di petrarchismo illeggiadrito.

E se la Maratti volle porre anche la sua piú vera e intima storia sentimentale e poetica (l’amore per il marito, la gelosia per altre donne, il dolore per le lontananze, le malattie, la morte precoce del compagno) sotto il segno alto ed esemplare di un amore coniugale e di una storia poetica illustre e spirituale (quello della Colonna e del suo canzoniere del «bel sole»), le note piú «platoniche» dei suoi sonetti si sciolgono piú morbidamente in un patetismo melodrammatico che, mentre nel suo stesso movimento di diario e di confidenza si inserisce nel gusto di dialogo e di comunicazione di una piccola società concorde di ideali di vita e di letteratura, si appoggia piú concretamente a testi di lirici cinquecenteschi meno solenni e severi, fra echi di madrigale di tipo tassesco, calde tinte di paesaggio alla Tansillo, e soprattutto suggestioni del canto patetico e già, a suo modo, melodrammatico della Stampa.

E queste vicinanze piú congeniali sottolineano la sua inclinazione piú originale che effettivamente traduce la tensione in vibrazione patetica e gentile, in cui le proclamazioni di virtú e fedeltà si svolgono in una atmosfera familiare, con un nuovo calore di sensibilità e un gusto di chiarezza razionale che gode a distinguere, a precisare il sottile rabesco di sentimenti spontanei ed educati, lontani dall’esuberanza passionale e dal brusco sfogo drammatico. E cosí il «tormento» e le «pene» di amore vibrano nella loro vera dimensione di una esperienza insieme sofferta e goduta, come incentivo di una misurata letizia vitale che già nel canto, nell’espressione melodica, miniaturistica e patetica svolge le sue qualità consolatrici e piacevoli.

Amore è, con i suoi stessi tormenti, foriero di piú sicuro piacere e conferma il suo compenso tanto piú felice perché ottenuto dopo un percorso di «rei martiri» che ne esaltano il valore pacificatore e sollecitano una sorta di tormentoso piacere: come può vedersi nei sonetti Bacio l’arco e lo strale e Dolce sollievo delle umane cure.

Ed anche i sonetti di trepidazione per la malattia o la lontananza della persona amata si dispongono in una linea di idillio melodico, dove malinconie e sospiri vibrano con una grazia e una implicita consolazione di canto che li assimila ai finali che esaltano il dolce sollievo e la letizia delle dolci-amare pene d’amore, e li accorda con i nitidi e delicati paesaggi che costruiscono una scena miniaturistica e soavemente familiare. Si legga, per esempio, il sonetto per la lontananza del marito

(Ombrose valli e solitari orrori,

vaghe pianure e rilevati monti,

voi da ninfe abitati, e fiumi e fonti,

che pur sentite gli amorosi ardori;

verdi arboscelli e variati fiori,

che al ciel volgete l’odorate fronti,

vi sieno i zeffiretti e lieti e pronti,

cortese l’alba, e april vi imperli e infiori.

Felici voi, che dal bel piè sovente

calcati siete, o dalla bella mano

tocchi, o dal guardo del mio Sol lucente.

Voi che già spirto un tempo aveste umano,

voi dite a lui qual pena il mio cor sente,

il cor, che vive, ahimè, da lui lontano.)[75]

in cui la presenza piú numerosa e varia di elementi paesistici, portati in primo piano e animati dalla simpatia che li evoca e li sente umani, è chiamata a partecipare al sottile tormento della poetessa, e a farsi portavoce della pena del suo cuore. E questa nel sapiente e sospiroso finale si esprime nella melodia tenera di un canto che la realizza nelle sue condizioni piú vere di vibrazione patetica gentilmente melodrammatica.

In tal direzione il risultato piú indicativo del piccolo canzoniere della Maratti è certo il noto sonetto della gelosia, in cui il presentimento e l’apprensione della verità turbatrice, il contrasto fra il desiderio di conoscerla interamente e il timore di scoprirla cosí contraria alla propria tranquillità si delineano nitidamente in una catena di domande indagatrici e in una conclusione che vuol richiudere, nel momento della rivelazione decisiva, la temuta apertura di una situazione troppo dolorosa:

Donna, che tanto al mio bel Sol piacesti,

che ancor dei pregi tuoi parla sovente,

lodando ora il bel crine, ora il ridente

tuo labbro, ed ora i saggi detti onesti,

dimmi: Quando le voci a lui volgesti,

tacque egli mai, qual uom che nulla sente?

O le turbate luci alteramente

(come a me volge) a te volger vedesti?

De’ tuoi bei lumi alle due chiare faci

io so ch’egli arse un tempo, e so che allora...

Ma tu declini al suol gli occhi vivaci?

Veggo il rossor che le tue guance infiora;

parla, rispondi: ah non risponder! taci;

taci, se mi vuoi dir ch’ei t’ama ancora.

Il piú noto rappresentante del sonettismo anacreontico miniaturistico e melodrammatico è Giambattista Felice Zappi[76], al quale è giusto riconoscere un preciso gusto di sfumatura melodica e di miniatura piú chiaramente rococò e l’aderenza di tali forme a una personale traduzione di vita sentimentale e socievole piú «moderna». Al solito non è certamente lo Zappi migliore quello legato ad una produzione falsamente grandiosa (Per il Mosè di Michelangelo, Giuditta, Lucrezia) nella quale convergono anche i doveri del poeta completo e ufficiale, produzione che è effettivamente ai margini esterni della sua vocazione e fa anzi, per contrasto, risaltar meglio la congenialità della sua opera di sonettista anacreontico in cui costume affabile e schietto, grazia di spirito e di atteggiamenti collaborarono, nella coerente grazia del suo recitare, alla sua vivace presenza nella società e ben sostengono la direzione piú genuina della sua tenue vena espressiva.

Proprio nei temi amorosi anacreontici e pastorali (ma il pastorale è soprattutto un elemento decorativo adiuvante di leggiadra grazia e di patetismo), lo Zappi trova la sua piú vera direzione, esercita la sua migliore misura, fatta di attenzione e «prudenza» stilistica, ma, insieme, derivante da una intima misura espressiva che, sul limite fra grazia e lezio, organicamente inquadra in proporzioni minuscole, ma coerenti, il movimento patetico e melodrammatico che suscita in lui l’attenzione alla vita dei sentimenti galanti e amorosi, alla tenera, sospirosa vicenda dell’amore, fra timore e speranze, fra sogni idillici edonistici e turbatrice difficoltà del lieto fine.

In lui, di fronte a molti altri sonettisti e canzonettisti del suo tempo, una maggiore acutezza psicologica si traduce nella capacità di far rifluire nello specchio placido e aggraziato dell’idillio anacreontico e pastorale una vita di piccole vicende sentimentali, di scenette vive nel dialogo e nel gesto, vivacemente «moderne» entro la stilizzazione ornamentale di amorini, ninfe e pastori.

Perché, rispetto ai tentativi piú programmatici e dilettanteschi dei contemporanei sonettisti romani, le poesie dello Zappi superano quella fase piú incerta e libresca e, in esse, ad una vitalità piú sicura e «moderna» corrisponde una tecnica piú precisa, lineare, agile, espressiva, che permette al piccolo e mediocre scrittore di realizzare la costruzione di sonetti mossi e coloriti, dialogati e animati in piccole azioni melodrammatiche.

La «correttezza» e la elegante leggiadria, la «modesta» bellezza che non cerca lusso di immagini e che pure non si vuol ridurre a scialba regolarità senza brio e rilievo, la gentile tenerezza erotica e l’analisi accurata dei sentimenti amorosi, appresa alla scuola del Petrarca e del petrarchismo cinquecentesco e adattata ad una gamma sentimentale tanto piú mondana e socievole, galante e patetica, si fondono organicamente in piccoli e saldi componimenti ben delineati e articolati, nella volontà di riaccordare, su di un terreno sicuro, parole letterarie ed elementi minuti di una piccola e aggraziata realtà.

L’animo idillico e melodrammatico vivo nello Zappi si esprime già in certe ecloghe a due voci in cui egli collabora con altri arcadi in un esercizio assai significativo, anche per un aspetto-limite dell’assurda fiducia arcadica in una poesia come prodotto socievole, come collaborazione letteraria di personalità attiva nella stessa poetica. Si pensi all’ecloga del Ferragosto con il Crescimbeni o a quella con il Paolucci sul contrasto fra amore-gioia e amore-tormento:

Alessi (Paolucci):

Ma tu dubbio ancor taci? Ah tu sospiri?

Tirsi (Zappi):

Con voce di sospir parlan gli amanti.

Alessi:

Sí, quei ch’han crudo amore ai lor desiri.

Tirsi:

Sempre Amore ha di fero e crudo i vanti.

Alessi:

Anzi fu sempre Amor gioia e diletto.

Tirsi:

Ah, che, cosí non dicono i miei pianti!

Ma ben meglio che in queste ecloghe le qualità dello Zappi si rivelano nei sonetti amorosi, nei quali traspare un vivace senso di vita contemporanea, aperta ad uno sviluppo moderato ma fiducioso, in condizioni civili piú animate e libere, illuminate da un nitido razionalismo, insaporite da una tenue luce di sogno.

Come avviene nel notissimo – ed anzi famigerato[77] – sonetto Sognai sul far dell’alba, in cui la trasfigurazione del poeta nel «cagnoletto», affettuosamente lascivo, segna uno dei punti estremi dell’illeggiadrimento lezioso arcadico, ma in termini cosí coerenti e compiaciuti che il lettore adeguatamente orientato – e ben consapevole dei gravi limiti di fondo di questa pseudo-poesia – porta pure la sua attenzione alla fattura sicura del sonetto, al procedere gradevole della scenetta miniaturistica, al suo dissolversi rapido e sorridente sullo sfondo sobriamente disegnato e melodico:

Sognai sul far dell’alba, e mi parea

ch’io fossi trasformato in cagnoletto,

sognai che al collo un vago laccio avea,

e una striscia di neve in mezzo al petto.

Era in un praticello, ove sedea

Clori di ninfe in un bel coro eletto:

io d’ella, ella di me prendeam diletto;

dicea: corri Lesbino: ed io correa.

Seguia: dove lasciasti, ove sen gio

Tirsi mio, Tirsi tuo, che fa, che fai?

Io gía latrando, e volea dir: son io.

M’accolse in grembo: in duo piedi m’alzai:

inchinò il suo bel labbro al labbro mio,

quando volea baciarmi io mi svegliai.

O come meglio avviene in un altro sonetto che piacque al Foscolo, ove la sottile e acuta vicenda amorosa, insaporita da un acuto rilievo di psicologia infantile, dal contrasto fra la donna esperta e il fanciullo ignaro e dalla sottile emozione di quel ricordo di un bacio lontano di cui ora ritorna la nostalgia, fusa con il pieno rilievo del significato di quella lontana e irripetibile felicità, si svolge con delicata misura. E si guardi al succedersi abilissimo delle voci calcolate nei loro passaggi a toni di canto piú aperto e sospiroso in coincidenza con i momenti piú patetici e alla raffinata esecuzione dei particolari:

In quell’età ch’io misurar solea

me col mio capro, e ’l capro era maggiore,

io amava Clori, che insin da quell’ore

maraviglia e non donna a me parea.

Un dí le dissi: io t’amo, e ’l disse il core,

poiché tanto la lingua non sapea;

ed ella un bacio diemmi, e mi dicea:

pargoletto, ah non sai che cosa è amore!

Ella d’altri s’accese, altri di lei;

io poi giunsi all’età ch’uom s’innamora,

l’età degl’infelici affanni miei!

Clori or mi sprezza, io l’amo insin d’allora:

non si ricorda del mio amor costei;

io mi ricordo di quel bacio ancora.

Ancor piú commisurato alla intima tendenza melodrammatica e piú adeguato a tradurre nel travestimento pastorale elementi di vita contemporanea è poi un sonetto impostato sul tema di un distacco doloroso e ritardato in una degustazione patetica della perplessità[78] che par bene indicare l’ideale dimensione della sentimentalità arcadica, mossa soprattutto da una disposizione di analisi e di fruizione dei sentimenti amorosi entro una vita confidente e piacevole di rapporti, che nella direzione amorosa e galante trova il suo terreno di espressività piú sicura.

Sullo sfondo suggestivo di un cielo notturno e poi albeggiante, le figurine del cavaliere e della dama cantano la loro esile pena e la loro incertezza patetica, fino alla conclusione in cui l’essenziale esitazione melodrammatica è intimamente giustificata dall’ondeggiamento patetico di tutto il sonetto, che il ricordo intenerisce e rivive con occhio affascinato ed attento in una piccola scena ed azione di cui i complicati momenti si succedono senza intralciarsi nell’ambito breve del sonetto, e si risolvono coerentemente – e lo scaturire coerente del finale dalla linea intera del componimento è meta ambitissima della poetica arcadica – negli ultimi due versi in un canto quasi di elegantissimo stornello:

Tornami a mente quella trista e nera

notte, quando partii dal suol natio,

e lasciai Clori, e pianger la vid’io

non mai piú bella, e non mai meno altera.

Oh quante volte addio, dicemmo, addio,

e il piè senza partir restò dov’era!

Quante volte partimmo, e alla primiera

orma tornaro il piè di Clori e il mio!

Era già presso a discoprirne il sole,

quando le dissi al fin: ma che le dissi,

se il pianto confondeva le parole?

Partii. Che cieca sorte, e destin cieco

volle cosí! ma come, ahi, mi partissi

dir non saprei: so, che non son piú seco.

Questa capacità di precisione e di evidenza miniaturistica esercitata con tanta efficacia nei particolari si verifica anche nella linea melodica in cui vengono commisurati alle proporzioni generali l’espansione e il volume del canto, ormai assai diversi da quelli della poetica secentesca la cui possibile eredità è mediata e trasformata, in una specie di illimpidimento, cui collaborano la chiarezza razionalistica e la scuola del classicismo e del petrarchismo. Qualità del canto che trova piú aperta espressione in altri sonetti dello Zappi ancor piú affidati al prevalere della melodia.

Come nel sonetto XII, Il gondolier, nel quale il gusto del canto si manifesta cosí esplicito e prevalente da costituire quasi un appoggio interno di tutto lo sviluppo del canzonettismo che, accanto all’impegnativa costruzione melodrammatica del teatro metastasiano, verrà svolgendosi verso il piú maturo slancio melodico e ritmico delle canzonette del Crudeli, del Metastasio, del Frugoni e del Rolli, in cui fluisce una vita piú intensa e libera rispetto agli avvii di primo Settecento e affiorano piú forti tendenze di rappresentazione figurativa.

Mentre alcuni brevi componimenti di Niccolò Forteguerri (che ricorderò poi per il suo Ricciardetto) possono confermare i caratteri fondamentali di questa zona arcadica, del suo gusto di vivere in una dimensione socievole e affabile, moderatamente edonistica, entro facili riferimenti ad una natura miniaturisticamente ridotta e piacevolmente «abitabile».

Si tratta di alcuni suoi madrigali e brevi componimenti raccolti anche nel secondo volume delle Rime degli Arcadi, tra cui è ben citabile un breve scherzo[79] galante che si articola in un paragone fra un aspetto di minuta e goduta realtà naturale e un piacevole moto di contemplazione amorosa:

Come vanno e come vengono

dall’albergo ove soggiornano,

nel piú caldo della state,

al cader delle spiche,

delle provvide formiche

le lunghissime brigate;

cosí volano

e rivolano

i pensier che mi consolano,

nel bel volto

e dal bel volto

di colei che il cor m’ha tolto.

Come citabile per le stesse ragioni è un altro piccolo componimento[80] in cui il paragone e l’esile tema amoroso svolgono le loro placide e minute immagini di una realtà gustosa e lieta, in un discorso poetico facile e senza pretese nel suo ordinato fluire, con le solite vibrazioni arcadiche di interrogativi, di pause, di esclamativi sospirosi e sorridenti:

I pesci di vivagno,

o di lago o di stagno,

invidio: ed oh! mai quanto!

Ma pietade altrettanto

ho dei pesci di mare,

dei pesci di fiumare.

Sapresti tu arguire,

Filli, ciò che vuo’ dire?

Or ve’ se io dico il vero.

Non punge già pensiero

di partir dal compagno

pesce di lago o stagno,

ma da mattina a sera

il pesce di riviera

e quel del mar profondo,

gira e rigira il mondo.

Se potessi far io

in tutto a modo mio,

sai tu che vorrei fare?

Vorrei il mondo scorciare,

e farne poca cosa,

ma però graziosa:

un campo, una villetta,

e quivi, o mia diletta,

viver teco e morire,

ma non poter partire.

E si guardi soprattutto al finale (espressione di un desiderio di idillio senza fine, di calda intimità entro dimensioni piccole e «abitabili», di fantasticheria lucida e senza eccesso) in cui ben si può cogliere un centrale tema arcadico – sintomatico per un gusto e una mentalità tesi schiettamente non al grandioso e al drammatico, ma al miniaturistico, all’idillico (e semmai all’elegiaco-idillico) e al patetico qui insaporito di un senso piú apertamente lieto e piacevole – e si possono cogliere i toni e i moduli artistici che, ben rilevabili nel sonettismo della Maratti e dello Zappi, saran poi sollevati a piú intensa interpretazione dal Metastasio.

La lirica del primo Settecento viene mostrando nuovi elementi e componenti quando si passi a considerare altri rimatori come il Rolli, e il Crudeli, che, pur partendo da istanze e moduli della zona arcadica già illustrata, in varia maniera documentano ulteriori movimenti e sviluppi della poetica arcadica in direzione di quella piú precisa zona classicistico-rococò e classicistico-sensistica che ancor piú chiaramente si profilerà verso la metà del secolo in duttile rapporto con gli inizi e la maturazione della civiltà illuministica.

Interessanti sviluppi della poetica arcadica in tale direzione è possibile rintracciare anzitutto nell’opera di Paolo Rolli, nato a Roma il 13 giugno 1687, il quale esordí come arcade militante con il nome di Eulibio Brentiatico e in una raccolta di poesie di arcadi pubblicò, nel 1711, i suoi primi versi. Da un ricco ammiratore inglese fu condotto, nel 1715, a Londra, dove fu maestro d’italiano alla famiglia del futuro re Giorgio II, e scrisse drammi per musica e curò edizioni di classici italiani (fra gli altri l’Ariosto, il Guarini, il Boccaccio, i berneschi, la prima edizione, nel 1717, della traduzione di Lucrezio del Marchetti), svolgendo cosí un’opera assai importante nell’ambito della diffusione della letteratura italiana in Inghilterra e degli scambi culturali tra i due paesi. Tradusse anche in versi sciolti il Paradiso perduto di Milton (Londra 1735), le Odi di Anacreonte (Londra 1739), le Bucoliche di Virgilio (Londra 1742). A Londra, nel 1717, uscí la prima edizione delle sue poesie. Soltanto alle soglie della vecchiaia, nel 1744-1745, ritornò in Italia, per ritirarsi nella tranquilla solitudine di Todi, il paese nativo della madre, dove scrisse altre poesie e attese a varie traduzioni da Racine e da Newton, nonché alla raccolta del meglio della sua produzione poetica in tre libri De’ poetici componimenti del Signor Paolo Rolli pubblicati a Venezia nel 1753. A Todi morí il 20 marzo 1765.

Paolo Rolli iniziò la sua carriera poetica sotto la guida del Gravina e da lui riprese il principio della poesia creatrice di favole ammaestratrici, volgendo però assai presto, nel trionfante gusto arcadico-rococò del suo tempo, il severo didascalismo del maestro[81] nel senso edonistico di una poesia che «risorga in vaghe favole»,

sollievo a porgere fra cure gravi,

e gioia all’ozio d’agitate menti,[82]

e si proponga di operare con la sua arte

a render miti

ed a scemar con tocchi armoniosi

i turbati pensieri ed a sgombrare

dubbi angosce timor tristezze e pene.[83]

Poetica edonistica che, nell’utile dulci oraziano, riduce lo stesso utile ad un lieto rasserenamento degli animi, già disposti all’idillio e a un gusto di esercizio piacevole dei propri sentimenti. Ma il Rolli riprese anche dall’insegnamento graviniano l’attenzione alla poesia antica, perché essa, comportando la sua tendenza ad un’arte visiva e plastica dava, insieme al suo amore razionalistico di ordine e di chiarezza, una diversa consistenza alla sua poesia che voleva essere prima di tutto accordo fra canto e figura: ché meno sincero e fecondo fu in lui il vero canto melodrammatico, e la sua abbondante produzione di melodrammi è quanto mai scadente e da lui stesso poco apprezzata. E nelle stesse Elegie, piú che un forte scavo psicologico e drammatico (e si ricordi che il Rolli voleva riprendere la «molle elegia», ma «spogliata di lagrime e sospiri»), domina il rilievo delle figure femminili nella loro bellezza ed eleganza e il movimento patetico è tutto tradotto in un gesto e in un atteggiamento delle figure piú che nelle parlate liriche dei personaggi.

Anche questa tendenza alla rappresentazione evidente di oggetti e persone aveva una certa giustificazione nell’insegnamento graviniano, ma soprattutto corrispondeva ad una crescente esigenza del gusto arcadico-rococò, accentuato da un’incipiente sollecitazione del sensismo.

Fin dalle prime canzonette romane il Rolli aveva cercato di appoggiare la piacevole melodia e i ritmi poco complessi a particolari pittoreschi, a cose colorite e spiccate, a simboli concreti di piacere e spontaneità:

Già pria dell’altre frutta

spuntò su la collina

la verde mandolina

sollecita a fiorir;

e la cerasa anch’ella,

che fiorí dopo quella,

già la sua veste pallida

comincia a colorir.

Come nella stessa Primavera ci colpisce il nitido spicco di questo quadretto di caccia:

Or dal varcato mare

appena si riposa

la quaglia numerosa,

che accendesi di amor:

fiutando, il can da lunge

la siegue, la raggiunge,

e con la zampa in aria

fa cenno al cacciator.

Mentre nel celebre Inverno si nota facilmente come al fascino della voce melodica[84] sia indispensabile, piú che l’approfondimento di forti sentimenti, la precisazione di figurine sensibili, di colori poco vistosi ma ben distinti, di scenette acute e sensibili: il faggio con la sua ombra e le foglie che cadono, l’alito della lepre che si fa nebbia nel freddo mattino, la neve che brilla sulla montagna e che con la sua evocazione appoggia l’incantevole apertura di quella canzonetta:

La neve è alla montagna,

l’inverno s’avvicina;

bellissima Nerina,

che mai sarà di me?

I giorni brevi e rigidi,

le notti aspre e lunghissime,

come potrò mai vivere,

cara, lontan da te?

L’esperienza di canto che il Rolli perseguí a lungo anche nel periodo inglese – arricchendola con la ripresa di schemi melici scozzesi o delle francesi Chansons à boire – non è dunque mai isolata dal gusto della rappresentazione sensibile e figurativa.

Del resto, già nella prima elegia del periodo romano, egli aveva tentato piú direttamente descrizioni e figurazioni sensibili e colorite; come questa delle ninfe che suonano avene pastorali:

e di vaghi fioretti adorne il crine,

in tai canne porgean le ninfe

belle il fiato delle labbra coralline.

E piú tardi, nell’elegia IX, quel gusto di rappresentazione sensibile, plastica e agevolata dell’esercizio dei classici, si precisava in un’esemplare anticipazione del piú sottile impegno classicistico-sensistico del Parini del Giorno:

Erto è il bel collo, e rilevato un poco

è l’animoso petto, e in giú declina

l’omero vigoroso a poco a poco.

Nella man bianca come neve alpina

non appar nodo o vena, e molle cede

ove la palma ai diti s’avvicina.

Si noti poi che nel periodo inglese il naturale gusto del pittorico venne accresciuto dall’esperienza di una cultura piú empiristica, al contatto con un’arte classicistica e razionalistica (fra Addison e Pope) tesa a captare e tradurre in elegante, classica concisione impressioni della realtà, e a descrivere nitidamente ambienti, oggetti e persone, magari in funzione satirica, ma sempre con il compiacimento della rappresentazione perspicua e ben rilevata. «Motti acuti e lieti carmi» è l’insegna di questa poesia di divertimento e poco impegnativa (le Meriboniane, Marziale in Albion), in una generale disposizione di attenzione curiosa e divertita, piú che veramente satirica, a persone e cose: le allegre riunioni conviviali al Bain-bon coffee-house o nei ritrovi mondani sulle alture di Mary-le-bone, le figurine di donnine seducenti, di cantanti sfacciate, di giocatori, di nobili crapuloni.

Ma la maturità personale e storica del Rolli arcadico si rivela negli Endecasillabi[85] e soprattutto nel gruppo piú tardo, pubblicato insieme alla versione di Anacreonte nel 1739 e aggiunto agli endecasillabi precedenti (pubblicati nel 1717 e nel 1733).

È soprattutto in questi endecasillabi che l’accordo rolliano fra canto e figura si sposta sempre piú verso il predominio del secondo termine e la ricerca di evidenza plastica e pittorica si mostra con piú chiarezza e con risultati piú interi.

Superato il suono piú stentato e compitante dei primi tentativi di endecasillabi e piú direttamente usufruite le sue letture di classici[86] anche a contatto con il classicismo inglese[87], il Rolli sviluppò il suo amore per il figurativo cui adibiva il suo linguaggio classicistico-rococò:

In marmo pario greco scalpello

non fe’ di questi, vezzosa Lesbia,

collo piú candido, seno piú bello...

La gota morbida, soavemente

sotto al raccolto orecchio uniscesi

a quel tondissimo collo eminente;

onde in declivio gentile unito,

alabastrino discende l’omero verso

l’eburneo braccio tornito... (XVI)

Il soffio di una sensualità bonaria, unita ad una curiosità vivace, è ciò che soprattutto importa osservare – a definire la poetica del Rolli e l’interpretazione in questa delle sue qualità originarie e caratteristiche, e a collocare la sua esperienza artistica come un momento essenziale nello svolgimento della poetica arcadica in una fase di incipiente classicismo rococò e ad inizio di un accordo di perspicuitas classica e di preziosa miniatura rococò sotto il segno dell’insorgente mentalità sensistica – in queste animate e lievi rappresentazioni poetiche di tenui vicende amatorie con il fascino di figurine femminili in movimento, accentuato e ravvivato da un’intelligenza del proprio tempo e di un costume e di un atteggiamento a cui lo stesso Rolli contribuiva.

L’accento della ricerca poetica del Rolli batte sulla rappresentazione evidente, sul rilievo figurativo in cui si incontrano la scuola dei classici, il linguaggio mediato dai loro testi e, secondariamente, anche il riferimento stimolante e serenatore ad una civiltà di perfezione, di piena rappresentazione scultorea e insieme di libera e consentita sensualità classico-moderna[88].

Dal seno dell’Arcadia, ma idealmente in anticipo di una fase successiva di gusto anche se con quella prima collegata e spesso fusa, si precisa infatti con il Rolli meno cantabile una nuova utilizzazione della lettura dei classici, che punta sulla rappresentazione perspicua e sensuosamente evidente:

Gentile, morbida, leggiadra mano,

cui fer le proprie mani d’Amore,

piú dell’avorio candida e tersa,

sparsa di varie pozzette molli,

le cui flessibili lunghette dita

dolce assottigliano in unghie vaghe,

arcate, lucide, rubicondette... (XVII)

Eviterei di parlare di arte squisita (come fece il Calcaterra), perché allo sforzo evidente di una rappresentazione esauriente ed elegante si aggiunge una forzatura leziosa e sorridente che, mentre prova la permanenza naturale di forme piú facili (quel «rubicondette») e canzonettistiche, mostra il limite di un gusto e di una forza che non giunge alla squisita coerenza di consimili espressioni pariniane o anche di minori letterati nella fase di secondo Settecento.

Forme piú generiche, costruzioni sforzate, cadenze ancora facilmente canore e sfumature di vezzo lemeniane sono il limite di una ricerca di una miniatura perfetta e vivace che il Rolli tentò di là dalla misura di canzonetta, seguendo un essenziale motivo della sua personalità avida di rappresentare e non solamente di cantare, di dare espressione piú che solo musicale-visiva, colorita e plastica alle figure della sua fantasia edonistica, della sua gioia di vivere in condizioni piacevoli di amore e di ammirazione.

Artista ormai del classicismo rococò, il Rolli sentí con vivo, geniale istinto il gusto del capriccio e della grazia vivace che, mentre reagiva intimamente al fasto barocco, ne riduceva la libertà inventiva in proporzioni piú minute e piacevoli e, mentre reagiva al classicismo piú severo con la sua asimmetrica volubilità, accoglieva gustosamente la lezione di perspicuitas rappresentativa, la consistenza di figure precise e sensibili. E, scolaro del Gravina, assiduo lettore dei classici, pronto a rimproverare agli Arcadi una scarsa fedeltà agli antichi, ne regolava gli slanci piú estrosi in una sua politezza formale, nella «difficile facilità» paurosa di una modernità «inerudita», di un semplice istinto, e mirava a controbilanciare il suo vivo amore per la realtà moderna con tentativi di emulazione dei classici persino nella creazione, ancora incerta, ma significativa, di metri «barbari» a cui la lingua italiana, «nobile del Lazio figlia», gli sembrava particolarmente adatta.

E alla fine della sua vita aveva cercato di arieggiare una piú composta e fiera saggezza oraziana; tanto questo settecentista aveva bisogno di riferirsi persino negli atteggiamenti della vita, tutt’altro che privi di spontaneità e d’impegno, ad esempi illustri e nobilitanti, all’appoggio di uno «stile». Ma meno importa quest’ultima giustificazione del suo gusto e questo sviluppo stanco della sua poesia nelle «tudertine» in cui pure si può isolare una suggestiva e calma contemplazione del proprio ritorno dall’Inghilterra, come in questo componimento, Ad Aglauro:

Or non respiro

aer umido e freddo e denso fumo;

ma di colli a cui dier l’utili piante

Bacco, Cerere, Pallade e Pomona,

l’aria leggera sott’azzurro cielo.

Piú importa confermare come nello sviluppo della poesia rolliana le posizioni graviniane, in parte accolte scolasticamente, siano risolte in un compromesso efficace ed educativo per il «piacere degli orecchi» mai rinnegato, ma inverato in un canto ben ancorato ad una esigenza di espressione di gioia, di letizia edonistica e ad una forma di sentimento risolto in figura, in rappresentazione sensibile e concisa secondo un linguaggio rococò-classicistico, e come l’esigenza del rilievo a cui l’uso del linguaggio classicistico serve e stimola in accordo con una incipiente esigenza sensistica diffusa nel piccante miniaturismo rococò, il crescente riferimento alla civiltà artistica antica rappresentino un momento essenziale nello sviluppo della poetica arcadica in direzione classicistica come anticipo di una nuova fase poi chiaramente attuata dal Savioli e portata su un piano piú illuministico e impegnativo dal primo Parini.

Anche nel caso, certo minore e tanto meno centrale, di Tommaso Crudeli (nato a Poppi, in Casentino, nel 1703, vissuto a Firenze finché, accusato di appartenere alla Massoneria, subí il carcere dell’Inquisizione nel 1739, e fu confinato nel paese natale dove morí nel 1745), la lirica arcadica mostra aspetti interessanti della sua piú tarda maturazione: anzitutto uno spirito piú spregiudicato (che trova assai efficace espressione nell’opuscolo in prosa L’arte di piacere alle donne[89], cosí come la garbata e acuta saggezza toscana del Crudeli si manifesta nelle misurate e originali imitazioni e libere traduzioni di alcune favole di La Fontaine[90]), frutto di una generale maggiore circolazione di elementi critici e anticonformisti preilluministici, e insieme un piú pungente e pur amabile gusto di realtà piacevole e sensuosa che motiva la ripresa – filtrata in forme piú agili e frizzanti di tipo arcadico-rococò maturo – di esempi di descrittivismo sensuale del Marino ed anche lo stesso uso prevalente del polimetro vario e libero, meglio adeguante metricamente il movimento elegante e compiaciuto della descrizione sempre piú figurativamente predominante sull’elemento melodico.

Come si può vedere anche in un semplice brano della Notatrice:

Sí disse; e lieta colle man di rose

in bel nodo compose

l’inanellato crine,

che nero nel confine

di quel volto nevoso

con risalto grazioso

spargea luce e vivezza

sull’opposta bianchezza.

Poi si sciolse la vesta, che ristretto

tien l’avorio gentil dell’alto petto:

tolse al collo il monile:

poi sull’algoso masso

lasciò cadere abbasso

la veste piú sottile...

o in questo quadretto vivacissimo e prezioso della Ricamatrice, davvero esemplare per una versione, assai personale e sciolta, del gusto descrittivo arcadico nella sua maturazione rococò:

Nelle tue rosee dita,

bella virtú gradita,

è di tesser lavoro

con fil d’argento e d’oro;

il quale or rappresenti

fiori vaghi e ridenti;

or formi in aria augelli

al volo agili e snelli;

o per selve e dirupi

cervi, conigli e lupi;

o per verdi campagne

bovi, pastori ed agne;

o di notte sul fiume

il pescator col lume,

che colla sua forcina

verso l’onda si china,

vibra il colpo, e sul lito

vede il pesce ferito.

Le qualità schiette di questo piccolo scrittore mai banale – anche se a volte oscillante fra precisione e lieve sciatteria – si alimentano poi di un piú chiaro ricorso alle risorse di un classicismo miniaturistico e pur arioso e suggestivo che, nei rari componimenti «seri» ed encomiastici, o commemorativi, si esalta, con misura e pacata nitidezza, in immagini mitiche di rara finezza, raccordate internamente a un sentimento assai vivo, e tutt’altro che pedantesco, della bellezza e dell’armonia che uniscono natura ed arte, mondo antico e contemporaneità rinnovata da civiltà e saggezza libera e razionale. Immagini e quadretti mitologici che vengono da una versione piú intima e complessa della grazia del «non so che», insaporiti con il suo «felice disordine», con la sua spregiudicata, empirica esplorazione poetica che «rapisce una grazia, una bellezza / che nascosa sedea di là dall’arte».

Come sarà, ad esempio, il caso di questo quadretto degli Argonauti nell’ode per il celebre cantante Farinelli:

Quando l’Argiva nave

del tempestoso mar l’instabil onda

prima affrontò:

per te di Tracia il musico soave

dalla dorata fluttuante sponda

alto cantò.

Né quelli eroi vedeano,

intenti ad ascoltar,

gli alberi, che scendeano

dal Pelio ombroso al mar.

8. Satirici, giocosi, eroicomici

Fortemente intrecciata alle polemiche personali e letterarie e ai risentimenti rissosi, agli sdegni moralistici che agitarono la società arcadica malgrado le sue forti tendenze alla prudenza, al rapporto civile e socievole, e insieme al gusto della piacevolezza, dello scherzo, della loquacità discorsiva e conversevole propria dell’epoca, è quell’abbondante produzione di satire e capitoli e componimenti giocosi prevalentemente in terzine che tende a far rivivere – nella ricostituzione arcadica dei generi tradizionali – il genere bernesco (esercitato poi con varia efficacia, ma con prevalente insidia di laterale divertimento letterario e linguistico, nel corso del secolo), e insieme si raccorda, piú facilmente che in altre direzioni, con i precedenti di poesia satirica secentesca spesso già parzialmente aperta (i casi diversi del Rosa, del Soldani, dell’Adimari o del Dotti) alla condanna di aspetti di falsità etica e letteraria della società del Seicento.

Naturalmente anche in questa linea sarebbe facile verificare l’incidenza del nuovo gusto e della nuova mentalità sulla migliore coerenza e corretta naturalezza del discorso satirico o giocoso rispetto alla produzione precedente, come avviene soprattutto nel caso delle satire ricordate del Menzini (documenti dei suoi piú acri risentimenti personali – la dura polemica con il Moniglia – e dei suoi sdegni contro aspetti del tempo – ipocrisia, fasto, corruzione delle corti e dei potenti –, ma quasi sempre troppo ancorati alle proprie piú private vicende) o in quello delle satire e dei capitoli del Fagiuoli o del Martello (dei quali tratterò nel paragrafo sulla commedia), o – sempre piú sicuri e pungenti nel loro originale testo latino che non nella loro traduzione italiana – nel caso delle violente satire che Ludovico Sergardi (1669-1726) sotto lo pseudonimo di Quinto Settano scagliò contro il Gravina – aggredito per le sue idee letterarie ma anche per la sua empietà e le sue tendenze demagogiche – e contro usi e costumi della società romana di cui insieme denunciava satiricamente il particolare costume del «cicisbeismo» nelle Conversazioni delle dame in Roma.

Collegata in parte con questa linea satirica e bernesca, ma piú fortemente con la tradizione eroicomica secentesca (controfaccia della tensione eroica ed epica del secolo), è da considerare poi nell’epoca arcadica la ricerca di una narrativa giocosa e comica che corrisponde al bisogno dilagante del «piacevole», della letteratura come colto divertimento e incentivo di vivacità socievole, di conversazione arguta e spiritosa fra letterati (che tali ben sono e si sentono anche quando attingono a elementi popolari), come avviene piú chiaramente nel poema, pubblicato a Bologna nel ’36, Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, scritto da venti amici letterati (fra cui gli Zanotti, il Frugoni, il Baruffaldi, lo Zampieri, il Landi) che – in una tipica forma arcadica di collaborazione letterario-socievole – volsero in canti, in ottava rima e in stile bernesco, la materia trattata già un secolo prima da Giulio Cesare Croce, accentuandone il carattere burlesco e ridanciano in un aperto intento di divertimento e di riso, che si vuole giustificare nella sostanza antieroica del proprio tempo e si insaporisce entro la voce del buon senso di Bertoldo[91], con bonari riferimenti eroico-satirici a usi e mode contemporanee e specie a tipi di poesia grandiosa ed encomiastica dell’Arcadia che pure alcuni di quei letterati esercitavano in altra sede, ma della cui debolezza non mancava loro una certa ironica ed autocritica consapevolezza, spia di quella ambiguità assai cospicua in molti settori arcadici e specie nell’arguto ambiente bolognese, promotore di quella impresa.

E insieme quella direzione tende ad una forma continua e costruita del «piacevole», di contenuto e di linguaggio – piú di quanto non potesse avvenire nei capitoli berneschi –, avvalendosi appunto del deformato schema del poema cavalleresco, ripreso nella sua lunga tradizione eroicomica, dal Pulci alla ricordata produzione secentesca e specie toscana: il Malmantile racquistato del Lippi, il Catorcio d’Anghiari del Nomi.

Su questa direzione, mentre si hanno vere e proprie continuazioni di poemi dell’ultimo Seicento come quello del poema del Lippi (il caso di Andrea Agostino Casotti da Prato nel poema La Celidora ovvero il governo di Malmantile, del 1734), operò con maggiore abilità ed efficacia Niccolò Forteguerri, già ricordato da noi per alcune sue rime graziose e significative per il gusto edonistico-miniaturistico arcadico e noto appunto soprattutto per il poemetto eroicomico Ricciardetto, scritto fra il ’16 e il ’25 e pubblicato postumo (come altre delle sue opere, quali i Capitoli, la versione di Terenzio) nel 1738 a Venezia con lo pseudonimo di Niccolò Carteromaco e la falsa data di Parigi.

Il Forteguerri (nato a Pistoia nel 1674 e morto nel 1735 a Roma, dove visse la maggior parte della sua vita – a parte un viaggio in Spagna – ed ebbe incarichi e modeste prebende ecclesiastiche[92]) era uno spirito acuto e vivace, personalmente affiatato (come dimostrano le sue ricordate rime) con le tendenze piú briose e «moderne» e con la mentalità razionalnaturale dell’Arcadia e dotato di una disposizione anticonformistica e antipedantesca che, pur nel garbo di una educatissima ambiguità, non manca di farsi avvertire nella stessa prevalente dimensione di alto divertimento letterario che costituisce la base di interesse del suo poemetto.

Infatti, nella sua stessa condizione di ecclesiastico e di letterato protetto da personalità della curia romana, il Forteguerri sviluppò un atteggiamento di critica e di avversione per il costume diplomatico e ipocrita della vita ecclesiastica e curiale, per il contrasto in quella fra modi di vita tutt’altro che irreprensibili e le convenzioni moralistiche di superficie fino a quel platonismo amoroso che egli piú volte satireggiò nel suo poemetto (mentre svolgeva elementi di satira contro la curia e lo stesso stato «non cristiano» della vita ecclesiastica contemporanea in alcuni capitoli piú discorsivi e dispersivi), tanto che ancora alla fine del secolo il Rubbi, ripubblicando il Ricciardetto a Venezia nel 1789, sentiva il bisogno di mettere in guardia i lettori sul fatto che il Forteguerri «buffoneggiò sulla religione»[93].

Novelle anticlericali, come quella della Giannotta nel canto XXX, attacchi violenti alla vita dissipata degli ordini religiosi e degli eremiti, la stessa trasformazione di Ferraú in falso e dissoluto romito, non vanno considerati solo come ripresa di un’antica tradizione antifratesca, ma si alimentano di nuovi elementi personali e storici di una mentalità antiascetica e antiipocrita che reagiva dall’interno di una società prudente e conformistica alla luce di crescenti idealità critiche e razionalnaturali, attraverso la mediazione della comicità e dello scherzo scurrile: mentalità dell’epoca arcadico-razionalistica che nel poemetto si chiarisce (pur nell’ambiguità della prudenza e del contenimento di ogni consequenziarietà coraggiosa) nelle sentenze morali agli inizi dei canti, ben intonate ad una prospettiva di vita basata sulla concreta esperienza, poco propensa a slanci mistici e metafisici, nemica della violenza e della prepotenza, dell’ipocrisia, consapevole dei limiti della modesta sorte umana e tanto piú portata a goderne i limitati, concreti piaceri entro il riparo di una non mentita e non enfatica virtú: come la schietta amicizia, la vita placida a contatto con la bella natura e in una socievolezza sincera.

Si tratta dei valori medi di una mentalità diffusa, ma ben partecipata dal Forteguerri, cosí come questi nella sua professione di arcade afferma la versione della poetica arcadica meno ufficiale e cerimoniosa, il gusto della poesia educata e semplice, estrosa e insaporita (specie nel linguaggio e nelle sue grazie «toscane») da un piú acerbo colorito popolare e rustico, capace di novità fantastica, ma non enfaticamente e retoricamente pretenziosa di disumana elevatezza.

L’immagine della sua poesia sarà cosí non «la figlia del sol», munita di «cetra d’oro o di ebano contesta», ma una «rozza villanella» che «si trastulla / cantando a aria, conforme le frulla», come il Forteguerri dice all’inizio del poemetto, intonando il suo gracile e sommesso canto eroicomico a questa poetica dell’estro piacevole e dimesso, ma insieme lietamente inteso a rivelare gli aspetti fatui e falsi delle convenzioni e a rilevare gli aspetti gradevoli e saggi della vita umana.

Non si può dire cosí che il divertimento letterario del Ricciardetto sia privo di ogni sentimento e risentimento storico-personale e rappresenti (come disse duramente il De Sanctis) «la nullità poetica della vita e della forma» del primo Settecento: esso ne traduce invece i modesti e medi valori senza impeto e senza grandezza, e soprattutto (con l’abilità letteraria e le risorse di una ripresa gustosa di antiche tradizioni illustri) il piacere modesto e sicuro della piccola realtà quotidiana ed empirica, dell’incontro fra naturalezza ed eleganza nelle scene paesistiche e nella vita socievole.

Da quest’ultimo punto di vista il Ricciardetto è ricchissimo di piccoli e saporosi quadretti e scene primo-settecentesche (al limite fra cronaca poetica e traduzione comico-teatrale), di ariose aperture campestri e villerecce, di paragoni rusticali, di figurine intonate ad un gusto fra caricatura (lo stesso Forteguerri parla di figurine del Callot) e mobile vitalità, abilmente mediata in realismo letterario anche mercé un linguaggio che sa utilizzare – assai meglio del bernismo ufficiale e della poesia rusticale di fine Seicento – brevi inserzioni di «parlato» e di contadinesco per effetti di una leggiadra e vivace patina elegante e scabra.

Sarà la descrizione di una scena di danza cui son fatte partecipare varie gentildonne pistoiesi amiche del poeta (nel canto XXIII, strofe 44-60) o saranno, sul piano della pittura paesistica e ambientale, della lenta e letteraria conquista della realtà naturale – qui piú agevole che nella pura linea della lirica –, scenette campestri come questa descrizione «alla brava» di un tramonto:

Già il sol baciava il volto a la marina,

e gli alti monti si faceano oscuri;

e gli augelletti a la selva vicina

volavano su’ rami piú sicuri,

timorosi d’insidie o di rapina:

e i pigri tassi fuor de’ lor tuguri

moveano il piede: e i pipistrelli e i gufi

lasciavan lieti gl’incavati tufi.[94]

O certi quadretti di realtà piú fantastica e pur fatta di piccole cose comuni, come quello che Ulivieri e Dudone vedono, dal ventre della balena, sotto la superficie marina:

Ma seguitando pure la corrente

vanno oltre, e son portati in un gran stagno,

dove veggion pescar di molta gente.

Su le ripe son piante di castagno,

di lauri, e lecci; e popolo frequente

evvi, che compra e vende per guadagno.

Guardan piú avanti, e veggion case e buoi,

marre ed aratri come abbiamo noi;

che il sole per gli orecchi e per la bocca

vi passa dentro, e le cose produce.

L’uva annegrisce in su la spessa ciocca:

il gran biondeggia, e come oro riluce:

la notte la rugiada pur ci fiocca;

e la luna i suoi raggi c’introduce.

Vi sono uccelli, e i lor nidi vi fanno:

e chi non lo vuol credere, suo danno.[95]

A volte basta un particolare piú reale, e assicurato come tale nella sua denominazione popolare e comune, per dare a certe rappresentazioni di piccola realtà un sapore piú fresco e insieme piacevole e comico:

E fe’ far solo una bella frittata

con un prosciutto rosso come brace;

e portato un boccal di vin squisito,

li pose a mensa, e vi chiamò il marito.[96]

Tutta questa tenue e pur vivace materia si annoda poi assai agevolmente (e cosí le numerose novelle trascoloranti fra toni scurrili e licenziosi – di una licenziosità assai contenuta e innocente – e toni piú teneri e gentili) intorno al filo della narrazione divertita ed estrosa (estro piú che fantasia creativa ed organica) delle avventure degli antichi cavalieri, degradati in una loro nuova vita di personaggi volgari e comuni bisognosi di un mestiere per camparsi la vita in una realtà che non ammette piú le gesta eroiche e gratuite: Orlando fa lo «spenditore», Ferraú il palafreniero e l’eremita attento alle elemosine dei devoti, Rinaldo fa il cuoco, Astolfo fa l’oste, e lo stesso Ricciardetto – che con Despina costituisce la coppia piú gentile e vagheggiata e rappresenta con i suoi umori e le sue nozze finali con lei la molla della lieve azione – fa il «barbitonsore».

E il finale del perfido Gano nella gabbia in cui è coperto di insulti e di immondizie e muore bruciato saltellando «come un ranocchio», o la rappresentazione di Rinaldo «spelacchiato» e senza un soldo in tasca, ben si inseriscono in questa degradazione degli antichi cavalieri, condotta assai coerentemente e non senza spirito di comicità e di critica di un mondo poetico visto nel controluce della sua possibile traduzione in un mondo quotidiano e volgare.

Non si tratta certo dell’acre parodia di Carlo Gozzi nella Marfisa bizzarra, e pure non si può non avvertire anche in questo aspetto centrale del divertimento letterario del Forteguerri un certo sapore di storia nella irrisione per un mondo illustre ed eroico non piú possibile e magari non piú augurabile in un tempo diverso piú critico e saggio e mediocre, che insieme si definisce tale e pur si compiace della propria diversa razionalità e concretezza.

Mentre nella attuazione del suo poemetto il Forteguerri (come tanti altri letterati arcadici che tentano una specie di poesia della letteratura e un modo mediato di far rivivere la tradizione amata in una compiaciuta e divertita sua nuova trascrizione) sviluppa sapientemente e gustosamente la componente piú letteraria del suo divertimento: la ripresa e sottile mimesi non solo dei veri poemi eroicomici, ma anche dei poemi cavallereschi veri e propri (nonché della novellistica dal Boccaccio in poi), insieme a un largo impiego delle forme già elaborate dalla letteratura del suo tempo fuori della poesia narrativa: il gusto del melodramma e della commedia rusticale.

9. L’aspirazione al teatro tragico

Il campo in cui l’impegno di «riforma» della poetica arcadica – fra restaurazione e novità, fra attrazione per i classici e volontà di una modernità di costume e di forme – si manifesta con piú programmatica discussione e piú caparbia attività di sperimentazione è il teatro tragico. E alla riforma e costituzione piú generale di un teatro «italiano» nei suoi vari generi si legano le esigenze culturali e civili dell’epoca arcadica razionalistica, che in quello (come poi gran parte di tutto il secolo che nell’esperienza teatrale colse alcuni dei suoi risultati poetici piú alti: dai melodrammi del Metastasio alle commedie del Goldoni e alle tragedie dell’Alfieri) vedeva la forma di piú efficace contatto con un pubblico nella sua varia ampiezza e stratificazione sociale, lo strumento piú adatto per un’educazione, non solo artistica, ma anche filosofico-morale della società in sviluppo.

E se a volte si pronunciarono rigoristiche proteste contro l’immoralità del teatro in genere (il caso del domenicano Daniele Concina con i suoi trattati, a metà secolo, De spectaculis theatralibus christiano cuique tum laico cum clerico vetitis e Dei teatri moderni contrari alla professione cristiana), tali proteste furono prontamente rintuzzate (al Concina rispose duramente il Maffei con una delle sue ultime opere, Dei teatri antichi e moderni, dedicata significativamente al papa) e praticamente sommerse da una pratica e da un’ispirazione che trovarono piú tardi – come vedremo – largo consenso anche nel preciso ambito dell’attività educativa dei gesuiti, decisi a non perdere quell’importante mezzo di penetrazione delle loro idee, sapientemente configurandolo (via l’amore e le donne) in forme a ciò particolarmente idonee.

Assillante soprattutto fu la volontà di costituzione del «genere perfettissimo» nel teatro e in tutta la poesia: la tragedia, alla cui riforma e perfezione piú tardi, nel secolo, si operò persino con concorsi, premi, sovvenzioni di principi.

Assillante era anche il confronto con la grande tragedia francese del Seicento (Corneille, Racine, ma anche Crébillon, Rotrou, ecc.), rispetto alla quale i teorici e scrittori di poetiche dell’epoca arcadica si trovarono in una complicata situazione di odi et amo, attratti dalla innegabile altezza di quel teatro, ma desiderosi di emularlo e superarlo alla luce della loro spinta alla perfezione dei modelli greci e delle loro istanze morali, pedagogiche, letterarie (convenienza, costume, regolarità, verisimiglianza e correttezza), variamente operanti anche nel rilevare presunti errori e difetti del teatro francese, soprattutto là dove esso concedeva di piú alla passione amorosa da cui insieme gli arcadi erano attratti, nel loro fondo sentimentale piú schietto, e respinti per la doppia esigenza di una rappresentazione piú educativa e morale e da una rappresentazione di un mondo di sentimenti piú complesso e universale.

Cosí tutti i teorici e critici arcadi dedicarono parte rilevante dei loro scritti al difficilissimo problema della riforma del teatro, ricercando rapporti con il teatro greco, con la tragedia cinquecentesca italiana, e insieme discutendo sui temi delle unità e regole aristoteliche o pseudoaristoteliche del carattere sublime o medio dei personaggi e su quello centrale del «vero» e del «verisimile» che raggiunse – dopo gli interventi del Muratori, del Gravina, del Martello, del Maffei – le sue punte piú stimolanti in quel Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia[97] di Pietro Calepio (Bergamo 1693-1762), che riprendendo la discussione sulla Poetica di Aristotele e discutendo la rigida interpretazione da parte dei teorici francesi (e piú tardi egli si contrapporrà al classicismo razionalistico di Voltaire difendendo contro di lui l’Edipo sofocleo nell’Apologia dell’«Edipo» di Sofocle contro le censure del signor di Voltaire, 1742) finiva in realtà per proporre una concezione della tragedia fondata su un «mirabile verisimile» e su una «mediocrità» dei personaggi piú vicina alla complessa natura umana e implicante cosí un forte approfondimento dell’analisi psicologica, mentre, in sede piú generale, il Calepio offriva alla piú profonda meditazione estetica del Bodmer la formulazione di una percezione estetica che non fosse solo apprensione sensibile né solo conoscenza intellettuale, ma atto intermedio tra l’una e l’altra, aprendosi – pur con limiti di compromesso – verso una piú forte affermazione della creatività della fantasia poetica.

Eppure a una cosí folta e tutt’altro che oziosa discussione teorico-pragmatica – che contribuí certamente ad una discussione di ampiezza europea e cosí costituí uno dei nodi essenziali per la letteratura italiana di primo Settecento e gli sviluppi della civiltà illuministica e preromantica europea (si pensi almeno al rapporto Calepio-Bodmer, all’attenzione di Voltaire per la stessa opera di Conti e Maffei, nelle loro implicazioni teoriche) e fu uno degli aspetti piú impegnativi della estetica e della critica italiana del tempo[98] – non corrispondeva né, specie agli inizi del secolo, una vera risposta del pubblico né una effettiva tensione poetico-tragica nelle personalità artistiche e nella loro società che, come vedremo, trovò espressione e corrispondenza sincera piuttosto nel melodramma metastasiano e, semmai, a livello piú parziale, nelle forme piú medie e decorosamente familiari della Merope del Maffei. Mentre il pubblico piú grosso era ancor fedele alla commedia dell’arte e alle favolose e romanzesche tragicommedie «alla spagnola» di fine Seicento e tanto piú era giustamente allontanato o dai tentativi di riesumazione di antiche tragedie cinquecentesche (e cosí avveniva anche per la commedia quando il nobile veneziano Recanati fece rappresentare dal Riccoboni la Scolastica ariostesca e la vide cadere dopo due rappresentazioni malgrado l’appoggio di duecento nobili amanti della letteratura classica) o da impacciate traduzioni di tragedie del classicismo francese o dai nuovi prodotti tragici che spesso gli stessi teorici della riforma tragica venivano apprestando senza vera ispirazione e necessità personale (il Calepio soppresse due sue tragedie avvertendo come esse riducessero, non sostenessero la forza delle sue idee critiche) o con fastidioso e inadeguato linguaggio latineggiante ed accademico o con eccessi di peripezie «tragichissime» che finivano per diventare grottesche e comiche o con una linearità senza scatto di azione, o con una sproporzione fra gli intenti e i temi morali e la loro vita poetica e teatrale.

Al fondo c’era, ripeto (come anche abbiamo visto nello sviluppo della lirica), un dissenso profondo fra la velleità tragica e il crescente bisogno di medietas patetica dell’epoca, fra un gusto programmaticamente severo ed eroico e un gusto animato, elegiaco-idillico che finiva poi per riflettersi – in piú sincera analogia con il vero e proprio animus melodrammatico e col piacere di piú affabili e meno ardui nodi sentimentali – in alcune di quelle stesse «tragedie» concepite con diversa ambizione drammatica.

Cosí – pur considerando nel loro giusto valore gli aspetti di correttezza stilistica e di risposta alla farragine di tanto teatro tardo-secentesco: forza di maggiore concatenazione, regolarità, chiarezza e verisimiglianza, tipiche forme della generale educazione arcadica in accordo con le istanze del razionalismo – dovrà pur comprendersi la scarsa fortuna delle tragedie «grecheggianti» che aspiravano a restaurare modernamente la tragedia classica, supplendo magari alla loro intrinseca debolezza con il pimento di una moltiplicazione dei casi terribili e delle peripezie delle agnizioni (rifiutandone insieme l’orrore sconveniente delle morti sulle scene e diluendo l’azione in narrazioni e interminabili monologhi e dialoghi). Come è il caso – nell’ambiente veneto appassionato di teatro e dominato, specie nell’Università di Padova, da forti esigenze dotte e classicistiche – di quell’Ulisse il giovane, del 1720, del marchigiano Domenico Lazzarini (1668-1734), giurista e professore di «umanità greca e latina» a Padova e maestro apprezzato di petrarchismo ortodosso e aristotelico classicismo[99]: tragedia che può apparire anche «ben pensata» come disse il Croce, ma che altrettanto appare ad un livello minimo di forza drammatica, pur conducendo il modello classico l’Edipo sofocleo – verso una moltiplicazione degli incesti e delle agnizioni terribili[100] e la morte di molti personaggi principali. Sicché la reazione piú naturale del «buon senso» arcadico poté consolidarsi nella facile parodia del nobile veneziano Zaccaria Valaresso, Rutzvanscad[101] (1724), che immaginava la scoperta di un incesto fra nonna e nepote, e si concludeva con il notissimo annuncio del «suggeritore»

(Uditori, m’accorgo che aspettate

che nuova della pugna alcun vi porti;

ma l’aspettate in van: son tutti morti),

mentre traeva pur facile riso dalla esasperazione grottesca del linguaggio classicheggiante della tragedia lazzariniana e dalla satira della maniaca applicazione delle regole aristoteliche[102].

Se la tendenza grecheggiante di tipo lazzariniano, cosí professorale e didattica anche nelle moralità «virtuose» esposte da cori e parlate, rappresenta una via chiusa e solo interessante per lo sforzo di ripresa di un discorso tragico al minimo livello di istanze di regolarità, di unità di tono serio (per cui l’Ulisse non dispiacque al Voltaire), ripartendo, nella tragedia, da quelle difficoltà e rigidezze che si potevano diversamente trovare nei primi avvii della stessa lirica prearcadica-arcadica, le particolari difficoltà del gusto arcadico in movimento nel campo della tragedia si verificano variamente anche nei casi assai divaricati del tentativo moderno e francesizzante del Martello, dell’esempio di tragedia classicistica a fondo etico-civile del Gravina.

Anche il simpaticissimo e vivacissimo Martello, che – come vedremo – giunse a felicissimi risultati nelle sue piccole commedie «per letterati» e «per camera», e tanto aggiunse di spirito critico irrequieto e intelligente alla sua pur centrale partecipazione alle posizioni arcadiche, mostra un imbarazzo di fondo nel campo della tragedia a cui dedicò una lunga attività di discussione e giustificazione e la produzione di un Teatro italiano, folto di numerose tragedie, ma privo di veri risultati drammatici.

Cosí nella trattazione teorico-programmatica il Martello dimostra la sua acuta intelligenza, il suo agile e caustico buon senso nella critica del classicismo ad oltranza e del rigido aristotelismo (come può vedersi nell’Impostore, dialogo sopra la tragedia antica e moderna, 1714), nella volontà di una verisimiglianza naturale ed umana (che pur poteva finire per indurlo a critiche piú ingenue e crudamente razionalistiche) e nella stessa impegnativa e minuta discussione sui difetti di prolissità o di eccessiva «liricità» o «epicità» del linguaggio teatrale, desiderato vero e insieme «finto» e cioè naturale, ma non prosaico (discussione svolta – con lunga esemplificazione critica di passi del teatro italiano rinascimentale e seicentesco e del teatro francese – nel trattato Del verso tragico, 1715). Ma poi nella sua diretta produzione tragica troppo si avverte la sproporzione fra intenti e realtà, fra capacità di criticare il passato e capacità di realizzare opere adeguate e quello stesso intento centrale di offrire un verso tragico nuovo, che, usato in forma di distico a rima baciata, risulta dall’unione di due settenari: verso modellato sull’alessandrino francese (ritenuto troppo taumaturgicamente elemento essenziale della bontà del teatro francese), che venne chiamato perciò «martelliano» e che – ripreso poi specie nella commedia lacrimosa e romanzesca del secondo Settecento e fino ai drammi e commedie ottocentesche – era in realtà non piú che un compromesso e uno stratagemma metrico privo delle virtú essenziali che il Martello gli attribuiva nel risolvere gli ardui problemi di una sobrietà ma poetica, di una verisimiglianza elevata, sin di una «severa purità», e con questa i problemi di fondo di un teatro moderno italiano, simile e diverso da quello francese, tragicamente nobile e insieme non assurdo e pedantesco.

Di fatto, se sulla via del discorso teatrale quel verso promoveva pure una certa maggiore scioltezza e discorsività, e se nelle scelte di soggetti mitici, storici, biblici, religiosi, esotici (con un gusto esotico assai indicativo della martelliana curiosità per costumi e condizioni umane diverse: il caso dei Taimingi, ambientato in Cina, della Perselide, ambientato in Turchia) si rivelava una volontà letteraria di ampliamento tematico, alla resa dei conti la stessa discorsività teatrale si diluiva in una monotona e dolciastra debolezza e nella costruzione tragica è piú che evidente la frana e lo sgretolamento dell’azione e della forza dei personaggi e situazioni che, in definitiva, rivelano una volta di piú il fondo e la vocazione piú gentile e patetica, familiare ed idillico-elegiaca dell’animus arcadico di cui il Martello è – come vedremo – cosí intelligente e vivace, ma pur sicuro esponente.

Cosí, a considerar solo la tragedia che appare fra le meglio costruite e condotte, l’Ifigenia in Tauris[103], colpisce subito il prevalere piú autentico dello sviluppo psicologico e patetico piú sicuro nel campo di affetti amorosi[104] e amichevoli (i colloqui di Oreste e Pilade, di Ifigenia e Nicia, di Ifigenia e Pilade innamorati) o del gusto di piccolo realismo fra vibrazione di comicità e incentivo di «verisimiglianza» di favole illustri e severe. Basti ricordare in proposito, nella narrazione «drammatica» di una battaglia feroce da parte della confidente di Ifigenia, Nicia (scena 1 dell’Atto II) l’improvviso inserimento di questo quadretto sorridente che distrae la narratrice verso la figurina di un pastorello che assiste impaurito e nascosto alla strage:

Fra l’orror rider femmi del pastorel la fronte,

che uscia, ma usciva appena, dalla punta d’un monte.

O si pensi a battute che rompono, fra volontà di alleggerimento ironico-comico e vocazione irresistibile a toni non tragici, il tono drammatico, come, nel discorso di Oreste a Pilade (incatenati, scena 2 dell’Atto II), l’affermazione del giovane eroe:

Amo il morir da forte, no il vivere da scemo.

O allo stesso finale in cui, se l’amore di Ifigenia e Pilade non può venir realizzato perché la fanciulla è sacerdotessa di Diana, il lieto fine escluso per ragioni tragiche si riverbera effettivamente nei toni comicamente ingenui della parlata della protagonista che partirà con il fratello e chiede una cabina nella nave costruita in modo da poter parlare solo con lui e non anche con Pilade, timorosa dell’urto fra amore e giurata verginità sacerdotale[105].

Letta nella direzione patetico-comica – fra ambigua volontà di arricchimento e di dramma «moderno» e attrazione involontaria del mondo piú vero dell’autore –, anche una simile tragedia offre un suo gustoso interesse, ma certo non tale da corrispondere alla volontà di tragedie su cui i letterati arcadici puntavano e che perciò rimasero scontenti della prova «tragica» del Martello, come lo rimasero, per diversa ragione, di quella del Gravina.

Questi volle, sulla base delle sue idee teorico-programmatiche svolte poi piú particolarmente per il problema teatrale nel trattato del 1715 Della tragedia, dare esempi concreti della sua idea severa ed eroico-classica della natura e dei compiti di un teatro tragico esemplato sui tragici greci e contrapposto al teatro francese e all’aborrito melodramma per la forza organica della favola e della sua implicita lezione morale e civile: donde la scelta di soggetti romani e greci come necessaria scelta di un mondo ricco di fantasia e di ragione fra loro intimamente collaboranti in un tessuto di civiltà compatta e severa da emulare in una nuova auspicata civiltà rigorosa e razionalnaturale e la ricerca di uno stile e linguaggio nuovo-antico, che, nel prevalente uso dell’endecasillabo sdrucciolo, permetta allo scrittore di «imprimere / nell’alma» del lettore «col suon alle sentenzie convenevole». Come egli scriveva nel polemico prologo alle cinque tragedie (il Palamede, l’Andromeda, l’Appio Claudio, il Papiniano, il Servio Tullio) pubblicate nel 1712, e scritte con grande rapidità – secondo la sua dichiarazione – in tre mesi «senz’alcun pregiudizio della cattedra», mirando a mostrarsi in esse «in un legista, oratore e filosofo», ma senza riuscire a costruire poeticamente gli alti temi morali, filosofici e civili che indubbiamente vivono piú autenticamente e con una loro forza tensiva che sol raramente si schiude in spiragli di opaca luce poetica – ad esempio la descrizione della bellezza di Andromeda nella tragedia omonima entro un tessuto espressivo pesante e faticoso, aggravato dai crudi latinismi e da certa rozza oratorietà giuridica che ben motivarono la piú generale reazione arcadica sensibilissima alla bontà della fattura stilistica, mentre altre critiche (specie quelle del Sergardi) si precisarono in un dissenso ideologico con l’«empio» e demagogo Gravina («Filodemo» lo chiama appunto il Sergardi), che ci aiuta a capire e valorizzare su di un piano culturale e prepoetico (e pur non privo di una sua rude, acerba e incondita tensione espressiva-impressiva) queste inamene, ma pur non trascurabili tragedie. Ché esse, ripeto (si pensi soprattutto al Palamede, carico anche di una validità autobiografica nell’esaltazione del «giusto», dell’eroe della ragione e della popolare sovranità, vittima dell’odio dei machiavellici e dell’interessata utilizzazione della superstizione popolare da parte della casta sacerdotale, naturale alleata dei tiranni[106]), si stagliano, per la loro profonda serietà e per la direzione tragica che indicano, nella piú generale temperie del teatro arcadico, anche se falliscono al loro alto programma per la gracilità e sommarietà fantastica del Gravina, tanto piú solido e robusto nella prosa ragionata e dialettica dei suoi scritti teorici e critici.

A nessun lettore provveduto potrà sfuggire il singolare fascino ideologico-storico di uno scrittore che nei primi anni del Settecento esaltava con profonda partecipazione, piú che il valore della «prudenza» e della «socievolezza» e del patetico calore (i valori d’altra parte piú usufruibili nella media mentalità del tempo e nella sua commutazione in letteratura), il valore di un’alta e tormentosa fede nel «divino poter della ragione», in un Dio giusto e vivo come luce della ragione e della coscienza, il valore di una battaglia necessaria e intransigente contro la interessata mediazione sacerdotale del divino e la perfidia delle tirannie e delle corti, contro le guerre di potenza di cui poi la plebe soffre senza nessun proprio vantaggio: come dice il coro del popolo nel finale dell’Atto I del Palamede:

ma se i gran Proceri

vanno al pericolo,

di ricche spoglie carichi

poscia ritornano

alla lor patria:

ma noi col corpo squallido,

e da ferite lacero,

ritorniam piú poveri

al nostro domicilio.[107]

Né si tratta mai di luoghi comuni, perché essi ben si alimentano della sdegnosa lotta dell’autore contro i gesuiti e la curia papale, del suo solitario impeto preilluministico, delle idee espresse e difese, a vario livello, nella sua opera giuridica e critica. Ma questa non era la via piú praticabile del tempo[108]; e piú aderente cosí alle sincere esigenze dell’epoca può apparire il tentativo del Martello.

Chi riuscí – anche se in maniera piú decorosa e media che non altamente tragica e veramente poetica – a meglio realizzare un’opera teatrale sufficientemente organica e rappresentabile, letterariamente costante e non priva di un suo movimento psicologico e di motivata azione, fu Scipione Maffei, che alla sua grande opera di erudito e storico-filologo, al suo interesse civile, uní un fervido amore per la letteratura del passato, per la riforma letteraria arcadica (già accennammo ai suoi significativi interventi sul valore poetico del Maggi), e non mancò di esercitarsi direttamente nella lirica, ma soprattutto nutrí una profonda passione per il teatro (e la sua ripresa e riforma), da lui difeso contro il rigorismo del Concina, appoggiato con la importante impresa editoriale di una raccolta di tragedie italiane e piú attivamente con gli aiuti e i consigli forniti alla compagnia dei coniugi Riccoboni-Balletti[109], e piú personalmente sostenuto con alcune opere tragiche, melodrammatiche e comiche. Se – come poi accenneremo – assai povere e troppo letterarie riuscirono le due commedie, Le cerimonie e il Raguet, e piú fortunato che meritevole di attenzione risulta il melodramma La fida ninfa, ben notevole, come già sopra dicevo, riuscí la sua tragedia, la Merope (1713), che a lungo nel Settecento fu considerata il capolavoro del nuovo teatro tragico italiano, il pieno risultato della gara italiana con il teatro francese, tanto che l’Alfieri se ne serví, come prova di forza del suo sistema tragico, imitandola e gareggiando con essa nella sua Merope del 1781.

Infatti la Merope del Maffei, mentre manca di un potente nodo e scatto tragico (l’«alfierizzamento» della stessa trama della Merope puntualmente verifica ciò che in questo stesso soggetto – pur legato alla «molle passione materna» che l’Alfieri avvertiva già come meno a sé congeniale – una vera ispirazione tragica poteva diversamente realizzare), rappresenta un felice ed abile incontro ed equilibrio fra le soluzioni proposte e realizzate nella tragedia arcadica – coerente alla stessa media ed equilibrata posizione arcadica del Maffei già espressa nel discorso di apertura della colonia arcadica di Verona nel 1707 – e corrispondeva assai bene alle esigenze piú generali del gusto arcadico: organicità e regolarità dell’opera, unità di interesse e di azione (e fedeltà non fanatica alle unità di luogo e di tempo), razionalistica e psicologica verisimiglianza (contro la ricerca secentesca di effetti spettacolari e grandiosi), naturalezza di situazioni, di personaggi (decorosi, ma umani, medi e giustificati in una psicologia normale, accettabile da parte di una società poco amante dell’estremo e dell’eccessivo), di linguaggio che pur nella dignità tragica fosse completamente comprensibile («rappresentar con ragionar naturale, maestà servando e decoro») e che nella misura del verso tragico unisse melodia e agevole discorsività[110], moralità e decenza (donde il rifiuto dei temi passionali-amorosi) e insieme animazione di affetti familiari e comuni a tutti gli uomini. E mentre la Merope conciliava nel suo moderato classicismo (un mito antico, «greco», ma rivissuto in una moralità e in un gusto settecenteschi e nella soppressione dei cori meno «verisimili» e «credibili») e nel suo verso – l’endecasillabo sciolto, decoroso e discorsivo, melodioso, ma privo della rima aborrita dai classicisti puri (un mezzo di mantenere moderate possibilità di canto in una misura piú vicina all’esametro classico, equidistante dalle cadenze canzonettistiche, dalla rigidità disarmonica dello sdrucciolo, dalla monotonia del martelliano) – le contrastanti esigenze rappresentate dal Gravina e dal Martello, essa riusciva (unica fra le numerosissime tragedie del primo Settecento) a unire letterarietà e teatralità, e a imporsi sulla scena, recitabile e rappresentabile, capace di reggere il confronto con l’opera musicale e con il melodramma e di soddisfare l’interesse e il gusto di un pubblico vasto e medio (colto, ma non composto di puri letterati e specialisti) di cui l’abile letterato e uomo di teatro aveva interpretato le fondamentali e medie esigenze teatrali, letterarie, spirituali, in una tragedia che nel suo fondo accoglieva sotto il suo aspetto tragico la piú sincera vocazione dell’epoca a una moderata tensione drammatica, venata di patetico e di idillico[111], vibrante piú di ben distesa e delineata perplessità, di psicologia e di azione che di profondi impeti tragici, risolta in un lieto fine rasserenante e pacificatore. La Merope segna il punto di piú chiaro equilibrio delle esigenze e possibilità arcadiche medie nel campo della tragedia, anche se – come vedremo parlando della generale opera di quello scrittore nel suo valore di sviluppo e ripresa di posizioni arcadiche e di spinte piú nuove – dal seno stesso della piú generale aspirazione arcadica alla tragedia e da un maggior raccordo con istanze di tipo graviniano scaturirà ancora il tentativo piú severo di tragedie storiche di Antonio Conti, di cui parleremo in altra parte del volume.

10. La commedia

Anche nel campo della commedia i «riformatori» arcadici espressero piú volte i loro decisi dissensi rispetto alle forme del recente passato, sia per quanto riguardava l’ibrida mescolanza di serio e buffonesco nella direzione della commedia eroicomica e romanzesca «italo-spagnola» (sul tipo delle opere del Cicognini), sia nella direzione della commedia dell’arte divenuta soprattutto divertimento «popolare», privo di quelle essenziali caratteristiche di organicità, di verisimiglianza, di coerenza di stile, abbandonato alle invenzioni «improvvise» degli attori e cosí sottratto a quella presenza dominante dello scrittore su cui puntava l’Arcadia, nella sua centrale volontà di una ricostituzione della dignità e della funzione educatrice e stilistica della letteratura e in modo che anche nel teatro la poesia fosse «non serva ma regnante». Cosí – mentre nello stesso ambito della persistente commedia dell’arte si può osservare il moltiplicarsi di trattati, repertori o «zibaldoni» intesi a loro modo a realizzare e ridurre in forma piú regolare l’improvvisazione dei comici, e uno scenario come le Metamorfosi di Pulcinella di Placido Adriani[112] può ben indicare un significativo sforzo di razionalizzare e moralizzare arcadicamente la materia e i modi della commedia dell’arte – sostanziale è la concordia dei teorici arcadici nell’attaccare violentemente e la commedia improvvisa e le commedie eroicomiche, rilevandone le «sconvenienze» di temi e di stile, l’oscenità, il linguaggio «vile», la lontananza dal verisimile, dal naturale, da ogni seria capacità di intreccio di azione e di sviluppo morale ed artistico. Come ben sintetizzava, fra gli altri, il Muratori in una pagina del capitolo della Perfetta poesia italiana, intitolato Della necessità di riformare la poesia teatrale:

Consiste oggidí non poca parte di queste commedie in atti buffoneschi e in sconci intrecci, anzi viluppi di azioni ridicole, in cui non troviamo un briciolo di quel verisimile che è tanto necessario alla favola. Essendosi dato il teatro in mano di gente ignorante, questa pone tutta la sua cura in far ridere, ed altra maniera, come dianzi dicemmo, non han costoro per ciò conseguire, che l’usar equivochi laidi e poco onesti, il far degli atteggiamenti giocosi, delle beffe, de’ travestimenti, e somiglianti buffonerie, lazzi da loro nominate, le quali non rade volte son fredde, scipite, e troppo note, e per lo piú sono improbabili, slegate e tali che non potrebbono mai avvenir daddovero.[113]

E proprio il Muratori, meglio di altri, tentava di far proposte concrete per una riforma del teatro comico che non fosse la pura restaurazione della commedia italiana del Cinquecento e sviluppava esigenze che da lontano paiono anticipare istanze della stessa «riforma» goldoniana: soprattutto circa una preliminare educazione del poeta comico «addottorato nella scuola dell’uomo dabbene», del «cittadino onorato», e insieme nel «buon gusto» stilistico e capace quindi di un «ridere onesto», di un’opera tutta scritta «etica e costumata», saldamente organica e interessante per aderenza sincera a costumi e sentimenti naturali e moderni, nonché circa l’educazione omogenea degli attori o «istrioni valenti», di cui non voleva perder la validità professionale opposta all’impreparazione dei «dilettanti».

Tuttavia, nella direzione delle proposte concrete di riforma e nel rapporto fra istanze generali del «buon gusto» arcadico e possibilità effettiva di nuove realizzazioni comiche, si assiste di nuovo alla difficoltà dell’attuazione della riforma, anche perché nello stesso Muratori l’esigenza morale e letteraria tende a scadere in remora moralistico-religiosa e in eccessive preoccupazioni regolistiche (donde l’attacco a Molière per la sua empietà e immoralità e per la scarsa attenzione ad Aristotele e «agli altri maestri della poetica»).

E la tentazione della piú facile e sterile via della restaurazione della commedia erudita cinquecentesca, l’applicazione rigida delle regole e delle istanze di verisimiglianza, linearità, prudente moralità e l’attenzione esclusiva ai «dotti» conducono alcuni letterati arcadici a fredde e scolastiche esercitazioni senza alcun valore comico, come sono certe commedie di Niccolò Amenta o la Sanese del Lazzarini. Né, malgrado l’impegno e l’esperienza teatrale tanto maggiore, anche le piú tarde commedie del Maffei (Le cerimonie del ’27 e il Raguet del ’47) possono veramente sfuggire e al limite di una letterarietà aristocratica (egli stesso le dichiarava adatte soprattutto «per una conversazione di cavalieri e dame eccellenti») e a quello di una sostanziale mancanza di vigore e interesse comico: nel loro pur abile compromesso fra schemi antichi e tenue sapore di vita contemporanea. Interessanti come prova di eliminazione dei difetti denunciati in sede critica nella commedia dell’arte o spagnoleggiante e di chiarezza e decoro strutturale e stilistico, esse non riescono a superare la garbata gustosità letteraria ricavata nelle Cerimonie dalla satira degli eccessi cerimoniosi della società nobiliare italiana ancora spagnoleggiante, criticati dalla franchezza di modi e di carattere del giovane Orazio tornato dalla Francia piú moderna e sanamente razionalnaturale (sicché egli romperà il fidanzamento con la cerimoniosa e fatua Aurelia per sposare la piú semplice e schietta Camilla[114]), o, nel Raguet, dalla parodia e caricatura dell’italiano gallomane – e dunque in corrispondenza con una fase piú avanzata di eccessivo infranciosamento dell’alta società italiana – che adopera nel suo parlare neologismi francesizzanti o addirittura parole francesi goffamente italianizzate con effetti troppo ripetuti e insistiti di dubbia e pesante comicità. Quella via troppo letteraria, anche se importante nella generale prospettiva arcadica di una ricostituzione dell’opera scritta e di un discorso piú coerente e corretto, non poteva condurre a quel teatro comico moderno, poeticamente valido e capace di sostenere il confronto con la commedia francese (solito banco di prova e oggetto di attrazione e contrasto per i letterati arcadici) o con l’antica commedia latina e greca (magari – come noterà piú tardi, con scherno, l’Arteaga[115] – credendo di avvicinarsi ad Aristofane, che aveva fatto parlare vespe ed uccelli, inventando cori comici di agli e cipolle!).

Allora era meglio aver chiara coscienza delle difficoltà di un vero teatro comico capace di aprirsi all’interesse di un vasto e indiscriminato pubblico (ancora legato alla commedia dell’arte e al meraviglioso della commedia spagnoleggiante) e restringersi piú consapevolmente ad una forma di commedia per letterati e addirittura «da camera», adatta piú alla lettura che alla rappresentazione e alla scena e fondata chiaramente su temi letterari anche se indirettamente facendovi rifluire elementi di vita e costume del tempo[116].

Questa fu l’impresa intelligente e felice del bolognese Pier Jacopo Martello (1665-1727) che proprio in questa direzione raggiunse i suoi risultati artistici piú felici, le punte piú acute e sensibili del suo vasto raggio di interessi e di disposizioni da lui applicate a tante direzioni della poetica arcadica con un incontro di adesione e di piú libera e spregiudicata capacità di critica e satira che fa di lui un personaggio estremamente singolare e interessante dell’epoca e della letteratura arcadico-razionalistica. Abbiamo già accennato a lui per il suo canzoniere in morte del figlio Osmino e per il suo teatro tragico e qui – a premessa purtroppo assai raccorciata – della considerazione delle sue commedie per letterati accenniamo alla sua attività instancabile e sempre toccata da qualità di intelligenza, di humour, di acutezza critica che lo distinguono dalle forme piú compassate e imbarazzate di tanti altri scrittori arcadici.

Nella sua abbondantissima e versatile produzione[117] il Martello è soprattutto animato da un forte amore per la letteratura e per la vita che in essa può esprimersi, quanto piú quella ne media con civile garbo e sicurezza formale gli elementi piú umani e generali, pur rivissuti entro la direzione piú genuina del mondo sentimentale arcadico. Cosí, solo a cogliere alcuni punti della sua prospettiva critica, alimentata da uno schietto humour e da originali capacità mimetiche-parodistiche, si dovrà almeno ricordare come il Martello sapesse ricondurre in piú equi termini la netta condanna arcadica del Marino (specie nel suo Comentario), di cui il Martello salvava una certa potenzialità poetica originaria e l’incanto di quel «piacere dell’orecchio» che egli voleva riportare, piú depurato e accordato con una maggiore verità sentimentale, in una nuova poesia piacevole e musicale. O come egli – e direttamente lo vedremo parlando delle sue «commedie per letterati» – sapesse trarre gradevolissimi ed acuti effetti letterari nella mimesi parodia delle varie maniere arcadiche e della loro piú maniaca pretesa di novità e di originalità (specie nei Sermoni della Poetica e nelle satire del Segretario Cliternate), o come infine nel dialogo Il vero parigino italiano (documento insieme ad altri scritti, come quello Del volo, di una prosa assai piú agile e vivace di quella di tanti piú accademici e pedanteschi scrittori dell’epoca) egli sapesse ridimensionare, con gustoso brio ed equilibrato giudizio, ragioni e torti della querelle italo-francese, ribadendo da una parte le critiche degli italiani alla scarsa comprensione francese della poesia alta e immaginosa, ma insieme avvertendo la novità di costume e di vita della società francese (e cosí della loro prosa) di fronte agli scomodi fasti ancor dominanti nella vita italiana e verificando questo contrasto – alla luce del suo desiderio di un costume e di una letteratura dignitosa, ma piú agevole e moderna – nel confronto, molto significativo, fra i palazzi italiani e quelli francesi:

Queste gran macchine di palazzi, de’ quali abbonda sovra di ogni altra metropoli la vostra Roma, contengono uno o piú magnifici appartamenti che servono unicamente a qualche funzione poche ore dell’anno, ma nel rimanente sono dalle mosche, dalle zanzare, dai ragni e dai sorci abitati; che, se fossero animali da compiacersi delle ricchissime suppelletili, oh quanto insuperbirebbero dello spaziarsi fra i broccati, i veluti, e i damaschi, e gli ori, e gli argenti, dei folli padroni ridendosi, come di gente ridotta a sfiatarsi per salire alle cime delle gran case, dove alla fine si assidono in pochi e ristretti mezzani a vivere e a riposare. Ma chi terrà il riso, in osservando la giacitura delle cucine dalle quali al luogo dove o pranza o cena il signore, le vivande impiegano un quarto d’ora di viaggio in man de’ famigli, che son ben balordi se per via non le assaggiano, e giungono fredde e mal conce; o egli è d’uopo per mantenerle calde, recarle con tanto fuoco che, collocato poi sulle tavole, acciocché gli stomachi non si raffreddino, infiamman le teste de’ convitati? Non abitavano in simil guisa gli antichi Romani, né cosí abitano i nostri moderni Franzesi...

Può immaginarsi da mente umana cosa piú vaga e ridente di un gabinetto franzese? Pitturette, buccheri, porcellane e specchi che d’ogni intorno moltiplicano i leggiadri, ordinati e piccoli oggetti, spirano lusso e delizia. E quelle piccole libreriette, sí ben cantonate e disposte nelle indorate ed inverniciate scanzie, tutte abbigliate di piccoli falpalà che, da un canto all’altro scorrendo, ornano, eguagliano la vista de’ libri e dalla polve li salvano. La spaziosa tavola con lo scrittoio, col torchietto di forbito acciaio per soppressare le lettere, i sigilli, la carta, le penne, che in ordinanza, la qual non ingombra, guarnisconla, non invitano, non violentano, ma dolcemente a ricrearsi studiando, mentre ne’ giorni il sole e nelle notti la lampada di cristallo sono alla vista di chi vi siede centuplicati da quanti specchi, e sopra e a’ fianchi abilmente annicchiati e variamente configurati, abbarbagliano. Qual genio sí ruvido può in luoghi cosí gentili, con quiete, con silenzio, con solitudine amenamente non occuparsi?[118]

Da simili posizioni in sede di costume e di vita il Martello poteva agevolmente e coerentemente passare a posizioni di critica e di poetica che, pur con salda base di serietà e di partecipazione agli ideali di rinnovamento e riforma, sembrano ben distinguersi per la piú chiara consapevolezza del divario esistente fra aspirazione e realtà, fra desideri sproporzionati e possibilità concrete.

Per quanto riguarda l’attività comico-teatrale, meno interessanti e stimolanti sono l’Euripide lacerato, curioso e piuttosto disordinato componimento teatrale incentrato sui vaneggiamenti amorosi del tragico greco e nella discussione su tragedie e commedie antiche, o le due brevi azioni «satiriche» Il piato dell’H e la Rima vendicata che intendevano «animare» teatralmente una questione linguistica (la difesa della lettera H minacciata di esclusione dal vocabolario della Crusca) e una questione metrica (la difesa della rima, contro il Gravina e il Maffei, in nome di un’armonia ben arcadica), e lo stesso celebre Femia sentenziato che, satireggiando comicamente il Maffei, piú che su vera forza comica si regge sul giuoco linguistico, sull’uso ironico e parodistico dell’endecasillabo e del linguaggio classicistico che – nell’ambiguità martelliana – poté insieme offrire positivi esempi e moduli di linguaggio e di metrica ironico-satirica non trascurati dal Parini nel Giorno. Su questa strada della abilissima mimesi parodistica di tipici moduli di linguaggio e maniere poetiche arcadiche (e attraverso questi anche di mentalità e di atteggiamenti culturali), il Martello giunse a veri effetti comici in due opere: la commedia Che bei pazzi! e la «farsa» o «burattinata» o «bambocciata» Lo starnuto di Ercole, piccoli capolavori dell’ingegno sensibile del Martello e di una società letteraria, raffinata, edonistica, ricca di consapevolezza razionalistica e di vivacità vitale e immaginosa.

La commedia Che bei pazzi! associa abilmente (sul modello della petroniana favola della matrona di Efeso) la satira della volubilità e della invincibile avidità erotica delle donne (e quindi con un bonario, ma acuto senso di realtà spregiudicatamente indagata) e quella, prevalente, delle varie infatuazioni femminili e non solo femminili per l’attività poetica e per le diverse maniere poetiche dell’Arcadia; ché infatti la vedova Sostrata, che si è rinchiusa nel mausoleo del marito morto insieme alla servetta Cornia, si farà convincere a ritornare alla vita e all’amore da un soldataccio ignorante, ma vigorosissimo, Penulo, il quale si serve di un madrigale petrarchistico, scrittogli dal Marino[119], per vincer la gara con altri pretendenti rimatori di Arcadia fatti alla fine frustare e rinchiusi nel manicomio. Tutta la gracile azione vive saporita e gustosa, ma soprattutto le capacità comiche martelliane si rivelano negli incontri fra la servetta – voce del buon senso realistico e consigliera maliziosa della sciocca vedova che ammanta le sue voglie naturali sotto la passione per la poesia di moda – e i goffi pretendenti poeti: come quando essi le espongono i loro desideri nel loro linguaggio di «maniera» e nell’inerente comicità della loro mentalità, sviandosi magari dall’amore per Sostrata a quello per Cornia allorché questa si presenta a Messer Cecco petrarchista intransigente col nome di Lauretta:

Messer Cecco:

Lauretta tu?

Cornia:

Sí ben.

Cecco:

Già i sospir movonsi

ver quel nome, che Amor dentro il cor scrissemi,

e il primo suon dei dolci suoi caratteri

di fuor laudando a sentir incominciasi...

... Ma, o sotto verde lauro donna giovine,

interromper convien quegli anni floridi,

perché col ben morir piú onore acquistasi:

e avrai virtú da fare un sasso piangere,

né al dir soave mai porrò silenzio,

ma canterò per ventun anni amandoti.

O allorché essa si presenta con il nome pastorale di Clori a Mirtilo (e Mirtilo Dianidio era il nome arcadico dello stesso Martello, che cosí si autocaricatura), il quale subito si metterà ad «eclogheggiare» in versi dolciastri e bucolici.

O sarà la parodia satirico-comica del canto «leggiadro» di Lofa, cantore eunuco di melodrammi, o quella del classicista rigido, tutto chiuso nel suo alone di pedanteria ottusa e nel suo linguaggio comicamente latineggiante:

Che vogl’io tu mi peti? In primis queroti,

che la sannionicida amabil Sostrata

le tremidule gene ed i nigerrimi

occhi, il petto peralbo e venustissimo

conceda a Sannion, che è sostratofilo.

Ma anche piú persuasivo e avvincente (sempre per un lettore ben provveduto e aggiornato sulle mode e sui gusti dell’epoca arcadica) è certo – sulla via di un fiabesco che il Martello aveva meno abilmente sperimentato nella forma piú diretta della «favola comica» A re malvagio consiglier peggiore, ricca comunque di eleganti figurine da «bestiario» arcadico – la commediola del 1717, Lo starnuto di Ercole, destinata a un teatro di quei burattini (e il Goldoni giovanissimo cosí la rappresentò nel castello di Vipacco) che il Martello amava ad un livello di quel suo piú spregiudicato amore per varie forme anche popolari di arte, come avveniva in lui del resto persino nei confronti della commedia dell’arte e delle maschere, di cui avvertiva la vivacità e il piacere[120].

Il Martello dà qui vita ad un mondo delicato e prezioso, ironico ed estroso, a cui la stessa consapevolezza della destinazione per il teatro dei burattini toglie ogni velleità di significato profondo e subordina tutto ad effetti di piacevolissimo sorriso, di grazia raffinata, che presuppongono d’altra parte il divertimento di letterati, di un pubblico colto e di gran gusto, capace di intendere un giuoco cosí sottile di misure preziose, di ritmi brevi e miniaturistici, di squisiti disegni raccorciati e minuti, dentro i quali si svolge un calcolato e gustoso rapporto di sentimenti e di motivi umani (amore, gelosia, volubilità femminile, orgoglio, frivolezza ed istinto bellicoso, fedeltà e tradimento, intrigo politico, superstizione, ecc.), ridotti nelle proporzioni di un mondo fra burattinesco ed infantile, commisurati ad una statura di marionetta e ad un paesaggio esotico (il regno dei Pigmei alle foci del Nilo), minuscolo, coerentemente impicciolito.

L’autore gode di questa sua creazione bizzarra e gli elementi che altrove potrebbero diventare motivi di profonda poesia (la satira della superbia degli uomini e dei loro essenziali limiti, delle loro debolezze eterne, la libertà della fiaba) sono per lui mezzi di un raffinato divertimento di letterato sensibile ed abilissimo, che si compiace di questo mondo di piacevoli figurine, di vocine sottili, di passioni ridotte anch’esse miniaturisticamente, di fronte a cui egli opporrà la figura enorme e la voce tonante di Ercole per far vieppiú risaltare le proporzioni minuscole del mondo dei Pigmei.

Ed ecco gli «omicciuoli» con i loro brevissimi nomi, esotici e fiabeschi: Kam, Fam, Ban, Kon, Uy, Neh, Mud, Gruh, Has, Fruh, presentati nel primo atto in un paesaggio grazioso ed esotico, con echi di fiaba orientale e di paesaggi ariosteschi alleggeriti e resi miniaturistici.

In un simile paesaggio, reso piú suggestivo dall’intenso, iridescente giuoco di colori propri di queste selve di fiori, dall’acuta sensibilità di questi esseri agli odori del loro mondo floreale – sicché la presenza di Ercole si farà avvertire dalla nuova intensità degli odori che egli suscita stropicciandosi dormiglioso a quelle selve che son per lui un piccolissimo praticello fiorito –, si muovono estrosi e felici, ma pieni anch’essi di sentimenti, di desideri, di passioni, i piccoli eroi («eroini») che si esercitano alla caccia contro farfalle-aquile, lucertole-serpenti (o il calabrone che «verde e dorato» «rota in aria e rugge»), armati di «spine di pesce» e di «spine di cardo», protetti da corazze fatte dai gusci di granchi e da elmi-conchiglie, cavalcando uccellini variopinti. Mentre le damine caracollano spensierate e pettegole su pappagallini e il saggio re protegge questa vita variopinta ed animata in cui si presentano, in toni abilissimi di melodramma, vari tipi di «umanità pigmea»: le damine sventate e civette, i mariti gelosi, i cacciatori e guerrieri virilmente sdegnosi d’amore come Ban, gli innamorati dell’amore come Uy, desideroso di una solitudine idillica con la propria diletta, i tenebrosi politici, cortigiani ed intriganti, il sacerdote ciurmatore che impone, per i suoi interessi mondani, il culto idolatrico dello scimmione.

In questo mondo, in cui si congiungono piacevolmente bonaria parodia della vita umana (e motivi piú audaci, come quello dello scellerato sacerdote che consiglierà l’avvelenamento di Ercole per mantenere il suo dominio, saranno appena sfiorati e volti in motivo di semplice arricchimento ironico) e gusto del fiabesco, interviene avventurosamente Ercole.

Le proporzioni perfette di questo mondo sono sconvolte dalla sua presenza e l’idillio cederà ad un curioso ribollire di passioni e di istinti sottilmente legato ad una tenue azione (la cui coerenza il Goldoni sottolineava con ammirazione): i guerrieri vorranno affrontare il gigante, i politici escogiteranno i mezzi di sbarazzarsene o di farsene un alleato contro i loro avversari (le gru), le damine, verso le quali il gigante dimostra una chiara simpatia, copriranno il desiderio, che le combatte con quanto ha di assurdo e di affascinante, sotto il pretesto del patriottismo e faranno a gara per sacrificarsi a lui per salvare la patria. Una di loro, Fruh, verrà afferrata, mentre gli volteggia vicino, dal pugno di Ercole e si scatenerà cosí l’invidia delle altre damine e la gelosia del marito Has e quella degli altri mariti e fidanzati.

Si cercherà allora di sfruttare la gelosia di Has e di avvelenare il gigante, mentre altri contrastano questo disegno ingeneroso. Finché Ercole con un poderoso starnuto manderà all’aria i Pigmei che lo circondano e imporrà loro di abbandonare il culto dello scimmione per quello di Giove.

Tenue azione il cui ritmo generale è efficace e piú efficace è quello delle singole scenette in cui il Martello ottiene risultati cosí misurati e convincenti. È meritevole rileggere soprattutto le scene in cui il geloso Has parla con la moglie Fruh tenuta prigioniera dal pugno di Ercole. Tutto è risolto in agile, mossa miniatura di melodramma sorridente, con una finezza ed una abilità che nessuno dei commediografi eruditi d’Arcadia aveva neppure sfiorato. Prima il felice racconto della scena in cui Fruh è afferrata da Ercole in mezzo al volteggiare variopinto delle damine a cavallo di uccelli e pappagalli, poi le ansie comico-patetiche di Has e quindi, nella scena 1 del IV Atto, le sue smanie di geloso quando Fruh, fra inquieta e compiaciuta, gli narra come sia fastidiosa la vicinanza del volto del gigante, «perché troppo gli irti suoi peli trafiggono la pelle», ed egli comicamente alterato esclama:

Ma non lo dire almeno

due volte al tuo consorte!

Piú legate alle istanze morali energicamente esposte dal Muratori nel capitolo citato della Perfetta poesia, in cui egli citava come unico esempio valido di nuovo teatro comico – pur chiaramente aspirando ad una commedia in lingua italiana come sola capace di rappresentare una vera alternativa italiana nella gara con i francesi – le commedie in dialetto milanese del «piissimo Maggi», «lezioni di morale» in teatro, sono appunto le quattro commedie che Carlo Maria Maggi (già da noi ricordato nella prearcadia settentrionale per le sue liriche italiane e per le sue poesie «meneghine») scrisse negli ultimissimi anni del Seicento: Il barone di Birbana, Il falso filosofo, Il manco male e i Consigli di Meneghino[121], mentre alle risorse realistiche e popolari del dialetto lombardo ricorreva anche il De Lemene nella sua commedia non spregevole La sposa francese.

Spirito serio e sinceramente religioso, preoccupato soprattutto di dare alle sue opere un contenuto morale e una concretezza e naturalezza opposte polemicamente alla frivolezza e alla falsità della letteratura barocca, il Maggi intendeva attuare nel suo teatro comico (avvivato anche da una chiara attenzione al grande Molière, poi cosí direttamente attivo – come vedremo – nella commedia toscana e specie in quella del Gigli) un programma etico-artistico, educativo, attraverso la rappresentazione di costumi reali moderni, la satira dei disvalori presenti nella società del tempo (la boria e la prepotenza di una nobiltà non consapevole dei suoi doveri civili e «cristiani», il punto d’onore, il duello, la falsa cultura, l’evasione da una vita seria ed onesta nell’avventurosità dissipata o nella attività militare), l’esaltazione pacata, ma persuasa, di nuovi valori socievoli e personali che la voce del nuovo buon senso realizza soprattutto attraverso il recupero di una saggezza di sana popolarità, a cui vogliono corrispondere l’uso del dialetto e persino la ripresa di maschere locali, che mostrano la maggiore spregiudicatezza del Maggi rispetto alla commedia dell’arte nel suo fondo piú popolare e rispetto alla piú «delicata» paura da parte di tanti riformatori arcadici di ricadere nel giuoco dispersivo dei lazzi e di un linguaggio «basso» e troppo comune.

Il Maggi – che fu pure fautore di una seria preparazione classicistica –, mentre accoglieva le istanze di una commedia tutta scritta, organica e verisimile (donde i suoi attacchi alla commedia spagnoleggiante troppo piena di avvenimenti meravigliosi e incredibili al cui fittizio e passeggero diletto anteponeva «quello che nasce dall’affetto e dal costume bene imitati»), avvertiva insieme i rischi di una pura e semplice imitazione degli antichi comici (il rischio della restaurata commedia erudita) e puntava su di una materia e poetica nuova, come egli vivacemente fa proclamare da Beltraminna di Porta Ticinese nel prologo primo dei Consigli di Meneghino (la sua commedia piú riuscita e significativa), dopo che sulla scena veniva rappresentato il I Atto dell’Aulularia di Plauto tradotta in italiano dallo stesso Maggi:

Desmettí st’antigaja i mé Toson:

on temp l’heva del bon,

adess l’è on alter fà;

in scambij da fà rid, fé sbadaggià.

On bott ho sentú a dí, che da i antigh

fu lodæ pú del giust

de sto Comediant i mott saræ;

e digg da vú, me pæren sempietæ.

Parché mò? L’è on gran Plævet;

ma fœú del sò latin non ’l pær pú quel;

e vú Toson con toccà mæ quel flævet

a i nost oregg el fé parí on sonell.

E pϜ quij passaritt,

(Fallij) quij parassit,

quij s’ciævv n quij barlafus che van co’ i scansc,

adess hin tropp lontan da i nost usanz,

e se lesgen domà par eleganz.

Se no tocchem su ’l nœuv,

quanto sia par fà rid hemm coppæ i œuvv.[122]

Intenzioni davvero interessanti ed importanti, alimentate da un solido mondo morale, pacato e persuaso, che trovano una realizzazione variamente efficace in un’articolazione abbastanza organica di scene di ambiente locale e moderno e in personaggi rappresentativi di vari livelli di consapevolezza e di ottusità alla luce degli ideali morali ed umani del Maggi.

Si pensi, guardando ai citati Consigli di Meneghino, all’efficacia della rappresentazione delle case in cui si svolge la vicenda e a quella delle figure contrapposte della madre di Lelio, la boriosa «damassa» Quinzia, preoccupata di trovare alla figlia Alba un partito economicamente vantaggioso, ma piú ancora di stabilire precisi termini contrattuali che salvino il decoro nobiliare della famiglia in un matrimonio borghese che ferisce il suo sciocco orgoglio di aristocratica spiantata e ignorante (rivelato anche nel suo linguaggio pretenzioso, affettato, spropositato, che fa pensare al linguaggio fra dialettale e colto delle dame del Porta e del Belli), e di Anselmo, padre di Fabio, laborioso e preoccupato di un’onesta e praticabile felicità della famiglia[123]. E si pensi soprattutto alla felice realizzazione del personaggio di Meneghino, popolano «filosofo», gustoso nella sua saggezza concreta e solida, che risalta soprattutto in certe sue parlate e consigli al padroncino Fabio, contrapponendo saggezza e moralità a fatue velleità di onore e di gloria, come può ben rilevarsi in questa parte di scena (scena 1 del III Atto) in cui Meneghino rifiuta, con solide ragioni e con comiche riduzioni all’essenziale, la proposta di Fabio di fargli da secondo in un duello, e verifica di questo la sua realtà vile, anticristiana e incivile:

Fabio:

In tale stato il confessarsi è vano;

lascia questo pensiero:

beghinerie non vuole un Cor guerriero.

Meneghino:

O ’l mè chær Patronscin. Cossa v’ha fæ

sto Servitor fidel, che ve pær poch

menall con crudeltæ

a fass sbusà i sacchitt del ciarvellæ?

Vorrí mandammi al fœugh

de tutt quangi inverna?

Fabio:

Orsú via, non verrai.

Con questa tua bontà, pietà mi fai.

Meneghino:

E mí l’ho digg apposta

parché ’gh fé fantasia.

Ve dispiæs a fà perd l’anema mia,

e no pensé alla vosta?

Fabio:

Taci, che non è tempo.

Meneghino:

No, che no vuij tasè. Criarò semper

de sta nefanda usanza maladetta.

La tœú i spiret piú nobel

al Prinzep, e al Signor

con sta poltronaria che pær valor.

Fabio:

Come poltroneria?

Meneghino:

Sí ben, poltronaria de no avè stomegh

da lassà ciacciarà sti cò bissœú.

Disen sparposet, che no i dis tant gross

l’Accademia vesina a San Caloss.[124]

Ma poi la stessa spinta morale, che è la piú autentica forza del Maggi, travalica spesso la capacità artistica di rappresentazione concreta di fusione di ironia e moralità, e di sicura azione comica, e questa si diluisce troppo spesso in lunghe parlate oratorie e sentenziose, in «lezioni morali» piú efficaci e storicamente interessanti per i loro particolari contenuti, e addirittura si inceppa e si sbiadisce proprio intorno al nucleo centrale della vicenda del figlio Fabio, incerto e volubile fra i suoi desideri mutevoli di affermazione mondana, di gloria militare, e una vocazione religiosa che lo condurrà al chiostro senza una giustificazione positiva piú forte e senza quel rovesciamento di comico in drammatico, di conversione del personaggio da frivolezza in serenità superiore che ci si sarebbe potuti aspettare. Con una certa prolissità e un po’ scialba ed opaca monotonia che corrispondono anche piú centralmente alle difficoltà intrinseche dell’impegno morale-poetico del Maggi, e dello smussamento comico dei suoi sdegni morali.

Al di là dell’opera del Maggi e con piú sicuro istinto comico-teatrale rispetto alla commedia piú erudita e in versi che culmina nel Maffei – pur considerando che solo con il Goldoni il teatro comico giungerà ad un pubblico vasto e intero, romperà la chiusura piú frequente dei teatrini di corte, di villa, di nobili dilettanti –, nella prima metà del secolo si profila una particolare linea di sviluppo della commedia in prosa, in Toscana, fra Siena e Firenze, in relazione con le condizioni della cultura toscana e con l’ausilio di risorse linguistiche e di colore locale che sembrano recuperare anche la lezione realistica della novellistica toscana boccaccesca e rinascimentale o il gusto ben toscano della poesia rusticale e la forte spinta satirica che in Toscana particolarmente si esprime tra fine Seicento e primo Settecento rifluendo insieme nella linea toscana dei poemetti giocosi ed eroicomici, tra il Lippi e il Forteguerri.

Si tratta soprattutto delle commedie del Gigli, del Fagiuoli e del Nelli, attraverso le quali ben si può scandire un processo di svolgimento storico e tecnico del teatro comico del primo Settecento piú liberamente affiatato con esigenze arcadiche generali e piú spregiudicatamente aperto alle sollecitazioni della commedia francese, ma anche ad un nuovo uso di procedimenti della commedia dell’arte e della stessa commedia spagnoleggiante e con un diretto ricorso alla prosa come piú adatta allo stile piú «quotidiano» della commedia.

Meno direttamente saldabile alle preoccupazioni, a vario livello, della riforma teatrale e letteraria dell’Arcadia, è la figura del Gigli, come piú varie e disordinate sono la sua formazione, la sua esperienza di vita, la sua attività di poligrafo e di scrittore comico, e certo piú disuguale, estroso, ma anche piú vivo e originale è il suo ingegno. Mentre, d’altra parte, pur in una minore diretta partecipazione agli ideali arcadici di correttezza, eleganza, chiarezza, e nei limiti di una formazione che ha ancora qualcosa di secentesco – fra pedanteria e antipedanteria, fra acutezza, arbitrarietà di erudizione e gusto di poligrafo e polemista –, non mancano nel Gigli legami evidenti con forti esigenze del primo Settecento e specialmente con quel bisogno di nuova libertà e sincerità nei rapporti umani, con quella ricerca di un maggiore avvicinamento della letteratura alla realtà che, nel suo temperamento irrequieto e nel suo impulso realistico piú spregiudicato, lo condussero a reagire spesso agli aspetti piú compassati e diplomatici della società arcadica e a rappresentare un momento assai singolare nella stessa ripresa teatrale di primo Settecento. Donde la difficoltà della sua vicenda biografica, l’espulsione clamorosa dalla Crusca e dall’Arcadia, che sottolineano vistosamente i dissensi della società letteraria e culturale di primo Settecento con questo suo pericoloso e irrequieto rappresentante e la diffidenza con cui inizialmente venne considerata la sua stessa presenza nel rinnovamento del teatro comico alla luce di ideali piú regolari e «prudenti» di vita e di letteratura[125].

Senza voler fare del Gigli un ritratto romanzato esagerandone il presunto cinismo, l’amoralità e la furia satirica (donde anche viceversa vennero le condanne moralistiche dei suoi biografi ottocenteschi), non si può fare a meno di rilevare fortemente nel suo temperamento un’istintiva disposizione alla burla e alla polemica, un gusto del ridicolo e del grottesco in cui si fondono spinte piú profonde (lo sdegno per l’ipocrisia in tutte le sue forme) e un estroso piacere di far ridere, di movimentare comicamente l’ambiente che lo circonda. Tuttavia questo istinto di burla e questo irresistibile bisogno di sfruttare le «miniere bollenti di ridicolezze» che la realtà gli offriva (come dice nella prefazione alla Sorellina di Don Pilone) trovarono nella vita del Gigli due obbiettivi principali contro cui la sua polemica si fece piú circostanziata e il suo gusto di rappresentazione ridicola piú precisamente satirico: la Crusca e l’ipocrisia dei falsi devoti. Contro questi due idoli polemici il suo umore satirico trova la sua forza maggiore e si esprime (con diversa intensità e in quella mescolanza di bizzarria e pedanteria che intorbida spesso il suo estro migliore) in quelle numerose opere non teatrali che l’abbondantissimo Gigli[126] scrisse soprattutto negli anni del suo soggiorno romano.

Nella polemica contro la Crusca (animata da un notevole spirito di libertà linguistica, ma anche dal risentimento e dall’orgoglio cittadino che non può tollerare l’assoluto predominio linguistico fiorentino e difende i diritti del senese, e specie del senese trecentesco documentato nella prosa di santa Caterina) il Gigli svolge soprattutto quella vena di satira linguistica che nelle sue commedie arricchisce gli effetti densi e gustosi di un linguaggio come quello senese campagnolo della Sorellina di Don Pilone, o come il fiorentino risentito e chiuso del Ser Lapo, e ben rivela quel gusto del giuoco linguistico, quel piacere del parlato, dell’equivoco, dell’immaginazione comica suscitata da un detto, da una parola colorita che in lui è tanto piú spontaneo e creativo di quanto lo sia nel Fagiuoli o nel Nelli.

Il Vocabolario cateriniano[127] è l’espressione piú intera di questa polemica e delle sue immediate possibilità comiche. Dalla constatazione e dalla difesa della legittimità della lingua adoperata da santa Caterina fuoriescono infatti bizzarre «piacevolezze», vere e proprie scenette comiche nel grottesco legame fra il divieto fiorentino di adoperare certe parole e l’arresto assurdo nello svolgersi di azioni designate con quelle proscritte parole. Risultati «piacevoli» di un umore comico che nel Vocabolario cateriniano finisce per ripetersi troppo e per confinare con quella «pedanteria alla rovescia» di cui il Carducci parlò a proposito del Giusti.

E la mancanza di misura, l’abbandono poco controllato ad un fervore di estro che si mescola continuamente a forme pedantesche, a faticosi e sofistici ragionamenti, e confonde motivi piú freschi con diatribe personali poco chiarite e spunti di chiuso pettegolezzo cittadino, si ritrovano anche in quel curioso travestimento letterario-linguistico del suo umore anticruscante che è la Brandaneide, o in quel Collegio petroniano delle balie latine, in cui una trovata, una burla che pare fosse presa sul serio in qualche parte d’Italia (cioè la costituzione a Siena di un collegio di balie cosí dotte nella lingua latina da poterla insegnare, sin dalle prime parole, ai bimbi loro affidati!), si sviluppa, con parti felici e noiose elucubrazioni, in un intero volume che vuol essere la satira del classicismo esagerato e di quella educazione a base unicamente latina che il Gigli vedeva come particolarmente e intenzionalmente favorita dai gesuiti.

È qui che si salda alla polemica linguistica la polemica ben piú importante in cui il Gigli fondeva insieme il suo gusto di mettere in ridicolo tutto ciò che gli appariva innaturale, artificioso, pedantesco, e una piú autentica ispirazione antigesuitica che può costituire il motivo piú consistente e storicamente significativo della vita del Gigli, legato com’era in lui (e nella cultura del suo tempo, però tanto piú prudente e cauta) ad un nuovo valore umano e civile: il valore della sincerità, della schiettezza naturale, essenziale ad una società a base razionalistica e fiduciosa nei propri ideali mondani, in un sostanziale nuovo senso di libertà. Anche se poi al Gigli mancava, a sostegno della sua irruente polemica, la profondità e consapevolezza culturale e ideologica che motiva e ben diversamente valorizza l’antigesuitismo di un Gravina.

Si prenda il Gazzettino (scritto a Roma nel 1712-1714) e in quel bizzarro e gustoso documento degli umori del Gigli, della sua irresistibile vocazione a cogliere le «ridicolezze» del proprio tempo, in quella singolare cronaca fantastica – in cui violente caricature, insinuazioni maligne (contro l’Arcadia, contro la Crusca, contro il severo Gravina e il suo giovane protetto, il Metastasio, contro la corte papale, ecc.) si collegano intorno ad una trovata estrosa (le amazzoni cinesi vengono a maritarsi in Europa precedute da una lettera dell’imperatore della Cina al papa) –, si troverà che le punte piú dure sono quelle dirette contro i falsi devoti, e contro i gesuiti, contro i quali il Gigli scrisse anche una Lettera intorno ai presenti sconcerti della Compagnia.

L’ipocrisia e la falsa devozione prendono cosí nella immaginazione risentita del Gigli forma di personaggio prima ancora di precisarsi sotto lo stimolo molieriano del riuscitissimo Don Pilone. Sicché quello che sarà (nelle particolari condizioni di un originale rifacimento) il suo capolavoro presuppone questo personale atteggiamento, questo risentimento polemico che, senza perdere la sua tensione originaria, si traduce artisticamente attraverso una disposizione e preparazione del Gigli alla rappresentazione comica teatrale.

Questa disposizione egli l’aveva già sperimentata, prima del felice incontro con le commedie di Molière, in una lunga attività di scrittore teatrale documentata da due volumi (Poesie drammatiche e Opere nuove) pubblicati a Venezia nel 1700 e 1704. Nel primo (che ebbe una seconda edizione nel 1708) sono raccolti oratori (La Giuditta, Il martirio di S. Adriano, La madre dei Maccabei), cantate (Il sogno di Venere), drammi per musica (Genevieffa, Lodovico Pio, La forza del sangue e della pietà, La fede ne’ tradimenti, Amore fra gli impossibili), e nel secondo ancora drammi sacri (Il leone di Giuda in ombra ovvero il Gioasso), cantate per musica (La via della gloria, La viola in pratolino, ecc.), oltre a una «invenzione drammatica» (Amore dottorato) e a due vere e proprie commedie (I litiganti e Un pazzo guarisce l’altro) che segnano l’inizio del periodo piú impegnativo della produzione comica del Gigli. Si tratta di una produzione varia e vasta, documento soprattutto del vivo interesse del Gigli per l’espressione teatrale, e della sua esperienza di forme melodrammatiche, di forme serio-comiche della commedia italo-spagnola, ed anche di procedimenti della commedia dell’arte di cui non mancano chiari ricordi anche in quei drammi per musica che piegano sempre piú verso il comico e il grottesco, fino a quel festoso «intermezzo», La Dirindina (1712), anticipazione di simili componimenti del Metastasio (L’impresario delle Canarie) e poi del Goldoni e del Casti, diretti a criticare e parodiare aspetti del teatro musicale e della vita frivola dei cantanti.

Ma la vivacità e densità del linguaggio comico, la capacità di riassorbire ed esprimere nel parlato la forza comica di certi procedimenti della commedia dell’arte, il gusto istintivo di accentuazione caricaturale e di deformazione comico-satirica della realtà, trovano ben altro risultato quando il Gigli piú direttamente si rivolge all’esempio del teatro comico del Molière e, attraverso lo stimolo del Tartufe, di cui il Don Pilone è originale rifacimento, è ricondotto piú fortemente al motivo satirico e polemico piú in lui profondo, mentre nella salda costruzione della commedia francese trova un appoggio e una misura alla propria fantasia fertile e disordinata.

Infatti, se è vero che il Gigli seguí la trama del Tartufe e in alcune scene tradusse il modello addirittura alla lettera, egli non solo aggiunse scene, episodi, intermezzi, ma soprattutto portò nella sua opera una intonazione propria a cui aggiunte, spostamenti, tagli (l’azione è raddensata in tre atti) risultano organicamente coerenti, come sostanzialmente coerente lo è ogni accentuazione di battuta, ogni particolare nuovo. Ciò che colpisce alla lettura e meglio alla rappresentazione (dove le vere qualità teatrali del Gigli hanno il loro pieno sviluppo e si precisano meglio le stesse essenziali caratteristiche del suo linguaggio denso, realistico e deciso, capace di un dialogo fitto e intrecciato) è proprio questo fatto fondamentale: il Gigli ha saputo creare, nella ripresa del Tartufe e nella simpatia ispirativa della situazione centrale, un suo tono, un suo ritmo coerente, a volte modificando appena il testo francese, a volte cambiandolo profondamente, ma sempre seguendo sostanzialmente una sua personale direzione piú risentita e realistica, piú apertamente comica, meno sfumata e sottile di quella del capolavoro molieriano.

Si noti anzitutto come il Don Pilone rispecchi bene e coerentemente la vita di una città provinciale toscana, che ben traspare sotto l’indicazione generica di «una città o terra della Francia, che non importa qual sia», ma che comunque non è Parigi, per meglio lasciare sentire l’aria di una piccola città con i suoi pettegolezzi, in un piccolo ambiente borghese, in un riferimento ben chiaro alla situazione del proprio tempo, di una vita familiare insidiata dalle arti del «falso bacchettone» (che è il sottotitolo toscanissimo della commedia), che, con qualche ambiguità, riflette insieme la condizione di intriganti falsi devoti (e il Gigli mirava in parte a un certo Feliciati consigliere di sua moglie) e quella del cosiddetto «prete di casa» che piú frequentemente in quell’epoca costituiva un complemento, non sempre gradito, della famiglia toscana di condizione agiata.

Cosí, davanti alla casa di Buonafede, nella sospettosa fantasia della vecchia Pernella, non c’è il via vai di carrozze e di lacché degli eleganti ammiratori che c’è davanti al palazzo dell’Orgon di Molière, ma solo il «ronzare» di «cani grossi e mosconi» «che danno molto da dire al vicinato» e che suggeriscono un proverbio popolare assai crudo e realistico: «E sai come dice il proverbio? che certe sorte d’animali non s’aggirano che dove la carne si vende», mentre nel giro elegante del verso molieriano Pernelle concludeva molto piú dolcemente:

Je veux croire qu’au fond il ne se passe rien,

mais enfin on en parle, et cela n’est pas bien.

Una diversità simile di battuta ci fa passare dalla considerazione dell’ambientazione diversa del Don Pilone a quella della sua comicità piú risentita e realistica e del suo coerente linguaggio piú denso e corposo.

Non solo si osserverà la piú esplicita allusione dei nomi, la loro natura piú apertamente comica (Buonafede invece di Orgon, Don Pilone – il baciapile – invece dell’ombroso, sottile Tartufe, Piloncino invece di Laurent), ma, specie nella voce cosí fresca e spregiudicata di Dorina (che è davvero una creazione tutta nuova e coerente all’ispirazione piú vera del Gigli), si noterà una costante deformazione del testo molieriano in battute tanto piú aperte e franche, da rapida e prontissima botta e risposta, con immagini realistiche e comiche che accentuano un sapore di concretezza, di rilievo di motivi istintivi: avidità di «roba», «danaro» e «carne» nei viziosi, franca sensualità e desiderio di gioia e di vita libera nei giovani.

Sia che allunghi, sia che accorci le battute, il Gigli sa ricreare un suo ritmo coerente e le stesse battute piú apertamente grottesche ed esagerate[128] – mentre ci indicano, nella loro novità rispetto al testo molieriano, come l’ispirazione del Gigli tendesse appunto ad un tono piú risentito, piú apertamente comico, ad un uso di immagini piú popolaresche, colorite e realistiche – si rivelano insieme bene affiatate con tutto l’organico svolgersi della commedia nella nuova direzione impressagli dal Gigli.

Ed anche il ritmo dell’azione e della scena reso piú denso e mosso (con maggiori spezzature di discorso e con un serrato intreccio di domande e risposte, che solo il Goldoni piú tardi, ed in maniera tanto piú poetica, otterrà) può essere portato alla linea piú rilevata, in accordo con la caratterizzazione piú caricata dei personaggi, dalla aggiunta di una semplice battuta e di un particolare mimico e scenico.

Il Gigli non trovò piú la sicurezza e l’equilibrio del Don Pilone, e certo non possiamo mettere sullo stesso piano di risultato del Don Pilone le due commedie che pure ci appaiono piú ricche di spunti comici, di soluzioni vigorose e di quell’essenziale piglio fresco e deciso che distingue il Gigli da tutti gli altri commediografi del primo Settecento.

Nella prima di queste commedie, il Gorgoleo, il Gigli (come fece anche su di un piano ancora piú apertamente farsesco, ma con minore energia, nelle Furberie di Scappino) si cimentava ancora con una commedia di Molière, Monsieur de Pourceaugnac. Ma qui l’impegno satirico era meno profondo nello stesso commediografo francese e la situazione centrale (la satira di un provinciale venuto a Parigi per prendere moglie e preso nella girandola di burle con cui dei giovanotti parigini lo spaventano e lo persuadono ad abbandonare la città e il matrimonio) si prestava ad un giuoco piú libero ed estroso con ricorso a procedimenti mimici ed a trovate lazzesche della commedia dell’arte. Il Gigli si lanciò con impeto in quella direzione, accentuandone il carattere caricaturale e grottesco e disperdendo in una piú calcata trivialità quanto di piú finemente malizioso vi era nella congiura dei giovani parigini ai danni del provinciale e nell’amore fra la giovane promessa a Pourceaugnac e il capo della comica congiura.

L’altra commedia è quella Sorellina di Don Pilone alla cui recita, a Perugia, partecipò il Goldoni adolescente. Essa rappresenta il tentativo da parte del Gigli di costruire una commedia senza l’appoggio di altri testi e di sfruttare al massimo la propria diretta esperienza di un mondo ridicolo, gretto e falso, in cui le sue stesse vicende personali portavano una carica di particolare risentimento. E questa risentita materia autobiografica porta nella precisa ambientazione senese (con la voce di senese campagnolo della vecchia Credenza-Cecilia) un acuto senso di realtà, che si intona bene al gusto essenziale del Gigli, presente sempre nelle sue opere con i suoi risentimenti e con le sue passioni. Ma insieme l’eccessiva aderenza alle troppe «ridicolezze» del soggetto e lo stesso sviluppo del disegno, fattosi sempre piú vasto e complicato di trovate e di personaggi, portano a gravi squilibri e dispersioni.

E se le prime parti appaiono vivacissime e vigorosamente impostate, ben presto la maggior compattezza iniziale si sfalda progressivamente e l’intreccio dei due motivi (la burla alla vecchia serva e il contrasto fra Geronio e la moglie), con la complicazione dei numerosi personaggi e delle loro varie intenzioni, soffre ristagni, ripetizioni, sviluppi particolari troppo calcati, e la figura di Don Pilogio (variazione di Don Pilone) non riesce a ben costruirsi e ad ingranare nell’estroso e complicato finale, in cui le burle, le trovate (quella comica e scurrile di Credenza vestita con la «camicia della modestia»), i travestimenti di abiti e di linguaggio (il falso tedesco di Tiberino camuffato da marchesa di Poppegnau), i balli e i canti di numerose maschere, concludono in maniera troppo esterna e farsesca una commedia iniziata con tanto vigore.

La tendenza piú dispersiva della fantasia del Gigli finí per prevalere seguendo le varie offerte delle «ridicolezze» della sua avventura biografica, della materia cresciutagli fra le mani e priva di quel potente correttivo di misura e di organico disegno trovato cosí fortunatamente nel testo molieriano nel caso del Don Pilone.

Il Gigli nello scrivere un’altra delle sue commedie piú aspre, il Ser Lapo, si rivolse per consigli, circa il dialetto fiorentino che vi adoperava, a Giovan Battista Fagiuoli, considerato come lo specialista di quel linguaggio in commedia e famoso soprattutto per i suoi personaggi rappresentanti vecchi cittadini o contadini fiorentini. In realtà mai il Fagiuoli sarebbe giunto (né vi avrebbe aspirato) alla crudezza, al vigore sanguigno che ha il Lapo del Gigli e che tanto piú spicca se lo si confronta con gli Anselmo Taccagni o con i Ciapo del commediografo fiorentino.

Il Fagiuoli[129] aveva infatti un temperamento molto diverso dal Gigli e la sua stessa fama, specie in Toscana, si impose soprattutto, sin dall’inizio del secolo, per il suo umore «faceto», per il carattere piacevole e poco impegnativo della sua opera scherzosa e per la sua competenza di linguaiolo fiorentino, erede della tradizione bernesca, del capitolismo conversevole e amabilmente satirico.

Come la sua vita fu soprattutto una ricerca di accordo, del resto assai facile, con una società accogliente ed amante dello scherzo e della bella lingua (fra la Crusca, l’Accademia degli Apatisti, la corte e le ville granducali di Poggio Imperiale e di Lappeggi), cosí la sua opera rispecchiò, senza eccessivo sforzo, il suo temperamento privo di forte tensione, la sua fondamentale tendenza discorsiva e burlesca.

Amico degli uomini della nuova cultura scientifica e letteraria (Redi, Filicaia, Bellini, Salvini), il Fagiuoli sentí, in quella società ricca di nuovi fermenti ma anche di un rinnovato gusto di conversevole accademismo linguaiolo, il lato meno profondo, piú mediocre di una vita intensa di relazione fra scienziati e letterati accomunati nelle accademie fiorentine anche dal piacere del divertimento letterario, dello scherzo linguistico, delle «cicalate» e dei «capitoli», delle parodie del linguaggio popolare e contadinesco.

E piú che con le commedie egli si impose appunto in quell’ambiente con le sue cicalate, con i suoi capitoli, con i suoi sonetti scherzosi con i quali riempí numerosi volumi (Prose, Firenze 1737; Rime piacevoli, Firenze 1729-1730 e Lucca 1733-1745; Fagiuolaia, Amsterdam 1734) indicando da sé la direzione essenziale della sua debole ispirazione con l’epiteto di «piacevole» e chiamando se stesso «il faceto Fagiuoli». A parte le prose che son per lo piú costituite da «cicalate» accademiche, soluzioni «facete» e prolisse di dubbi, quesiti, motti e proverbi (Chi sia di statura piú biasimevole, quel che è troppo grande o troppo piccolo, Se in un perfetto amante possa cadere il desiderio della morte dell’amata, nel caso che debba essere d’altri), pretesti a far brillare la propria bravura linguistica, la propria abilità ad intessere discorsi lepidi ed arguti su cose da nulla, se noi leggiamo le sue Rime piacevoli (che mandarono in visibilio il Giusti, per la loro purezza fiorentina, ma che indussero il Baretti a proclamare il Fagiuoli «principe dei seccatori» e rappresentante fastidioso dei berneschi del Settecento) vi troviamo soprattutto la tendenza a svolgere all’infinito piccoli nuclei comici e leggermente satirici in una discorsività facile e sicura, ma snervata e poco incisiva.

Questa limitazione del suo atteggiamento vitale mediocre e scettico e del suo interesse artistico ci conduce anche a individuare il carattere della sua importanza nella letteratura teatrale del primo Settecento: non tanto vera forza di ispirazione comica, né vera capacità di costruzione organica alla luce di un programma di riforma che egli direttamente poco sentí, ma – entro disegni di scherzi comici piú o meno complessi – una disposizione al parlato, al dialogo in una lingua facile, corrente e piacevole anche se troppo insistente sui propri mezzi di comicità ciarliera, sul sapore della popolarità fiorentina ottenuto con proverbi, modi di dire, riboboli che alla lunga stancano e che intimamente non hanno la densità ed il significato di risentimento estroso che hanno nel Gigli.

Con il Fagiuoli la parola scritta, ma tesa a riprodurre la spontaneità e la ricchezza di quella parlata (e di un concreto ambiente anche se riecheggiato letterariamente ed in una tradizione accademica e bernesca), riconquista il suo predominio nel teatro comico, si prende la rivincita sulla diversa tecnica della commedia dell’arte, di cui pure il Fagiuoli utilizza spregiudicatamente procedimenti scenici e figure tradizionali.

Cosí dal seno della sua esperienza di capitolista e di «cicalatore» nascono i suoi scherzi scenici, le sue commediole di ambiente campagnuolo, in cui azione e personaggi son creati in funzione del dialogo, del parlato. E come le sue risorse sono soprattutto i giuochi di parole, gli equivoci che nascono dalla ignoranza e dalla semplicioneria o dalla diversità della lingua – le parlate di Ciapo contadino che storpia le parole difficili e le intende a modo suo, quelle di Sempliciano Dolciati, nel Marito alla moda, che per il suo ingegno grosso capisce sempre all’incontrario, o quelle di Anselmo nel Cavalier Parigino con gli equivoci provocati dall’ibrido francese del falso cavaliere di Tantechose –, il centro del suo interesse va alla possibilità di reggere la commedia non tanto sulla forza dell’azione, quanto sul dialogo, sugli effetti comici del parlato.

Ciò gli riesce piú facile in quelle commediole campagnole (piú vicine ai suoi iniziali scherzi scenici spesso ridotti al semplice dialogo di due personaggi), nelle quali il Fagiuoli traduceva insieme una vaga ripresa di motivi arcadici di idillio campestre (donde viene a lui una certa leggiadria in quelli che il Baretti chiamava i suoi «graziosissimi contadini») e una piú viva adesione a quella tradizione fiorentina di idillio rusticale parodistico, di bonaria caricatura della vita dei contadini che alla fine del Seicento il Baldovini aveva ripreso con tanto plauso nel Lamento di Cecco di Varlungo.

Ma accanto a queste commediole rusticali il Fagiuoli ambí anche a costruire commedie «cittadine» piú complesse e non prive di qualche velleità moralistica. In un certo senso queste prove piú ambiziose e difficili (e certo meno riuscite, quanto a compiutezza, di quelle rusticali, tanto piú semplici e facili) indicano che anche nel Fagiuoli pur nel suo essenziale gusto del «piacevole» e del «faceto», del divertimento poco impegnativo, affidato soprattutto all’efficacia comica del parlato, alle risorse della lingua[130] si facevan sentire lo stimolo della nuova commedia molieriana e le esigenze di una commedia non solo «scritta» (e che rendesse nella scrittura l’efficacia del parlato), non solo moralmente castigata (e in tal senso il Fagiuoli non poteva che esser lodato dai suoi contemporanei), ma capace di dar vita organicamente e in forma limpida e corretta ad una lieve satira di costume, ad una rappresentazione, comica e facile, di condizioni della società contemporanea, a personaggi simili ad uomini del proprio tempo. Naturalmente, data la sua indole, il Fagiuoli risentí le esigenze della nuova commedia etica e razionalistica in maniera assai esterna e se rivolse la sua attenzione alla vita contemporanea, al muoversi del costume in anni in questo senso molto importanti, egli non ebbe la forza di addentrare questa attenzione e questo sguardo sotto le apparenze piú superficiali della «moda», di approfondire, ad esempio, quel contrasto fra nuove e vecchie generazioni a cui guarda, senza aver la forza di rendere piú esplicita la sua condanna della «moda» di una vita piú libera nei rapporti socievoli fra i due sessi, e senza d’altra parte affermare una comprensione, sia pure distaccata ed ironica, superiore alla semplice curiosità e al risolino dello spettatore, inteso solo a tratteggiare burle e caricature.

Come si può vedere, in maniera piú evidente, nel Cicisbeo sconsolato (ovvero Ciò che pare non è), commedia che ebbe grande successo a Firenze e in Toscana (ma passò nell’Italia settentrionale, ai teatri dei comici di professione, solo nella riduzione a scenario) e che (scritta nel 1708, ma ripresa e maggiormente diffusa nel 1725) è un notevole documento dei nuovi interessi toscani per una commedia non di evasione idillico-comica, ma diretta a rappresentare condizioni della società contemporanea, a trarre riso dalla moda, allora affermatasi, del cicisbeo e del cavalier servente.

Ma questo tema della pace familiare turbata dalla nuova istituzione del cicisbeo è effettivamente piú enunciato che svolto e, mentre il cicisbeo è caricatura esagerata di un vanesio senza alcuna risorsa, l’attenzione alla vita di una casa, nel contrasto fra vecchi e giovani, si svia tutta nella soluzione del sottotitolo (ciò che pare non è: la giovane sposa apparentemente civetta è onestissima e la fanciulla da marito apparentemente ingenua è scaltrissima nel condurre a buon porto il suo amore segreto) e culmina nella scena finale, assai buona ma di chiara ascendenza cinquecentesca, in cui il Fagiuoli riesce ad ottenere un piacevole incontro di voci fra le donne alle finestre, gli innamorati e i gelosi nel cortile.

Comunque il Cicisbeo sconsolato è un’opera interessante nel teatro comico del Fagiuoli e nel teatro comico del primo Settecento, indicando questa volontà di apertura e di attenzione alla vita contemporanea, al muoversi dei rapporti familiari e socievoli, ed è anche interessante perché il commediografo fiorentino vi fa esperienza di maggior movimento scenico, tentando di organizzare le sue risorse comiche in funzione di una rappresentazione piú mossa, complessa ed organica.

Questa maggiore ambizione si estrinseca nelle numerose commedie degli anni piú tardi e raggiunge i suoi risultati piú notevoli in coincidenza con la vecchiaia del fecondo Fagiuoli, quando questi mostra d’altra parte una maggiore scaltrezza stilistica, un piú raffinato senso del proprio linguaggio.

In questa attività degli anni piú tardi, in cui il Fagiuoli provò e riprovò piú volte schemi piú simmetrici (come in Amore non opera a caso o in Non bisogna in amor correre a furia) e schemi piú complicati e romanzeschi (come negli Inganni lodevoli o negli Amanti senza vedersi e nei Genitori corretti dai figliuoli), si impongono per una migliore vivacità di movimento e per un senso piú acuto di riuscita rappresentazione della vita contemporanea, Il marito alla moda e, piú ancora, Il Cavalier Parigino ovvero Aver cura di donne è pazzia (tutte e due del 1734-1735).

Migliore è la seconda commedia, in cui la rappresentazione comica della «moda» è piú aperta e centrale, maggiore vi è la ricchezza di figure comiche, assai bene intrecciate fra loro; maggiore anche (seppure privo di certi toni piú delicati del Marito alla moda) il senso della vita quotidiana nell’interno di una casa settecentesca, viva nei colloqui domestici (tipica la scena 4 del I Atto con «Isabella che cuce e Menica che fa la cordellina»), nelle scenette lievemente satiriche del costume contemporaneo (Frasia alla toletta e il consulto sulla collocazione del neo all’inizio della scena 14 del I Atto) che si distaccano nettamente dall’ambiente piú convenzionale delle prime commedie a sfondo rusticale.

Ma anche in questa commedia il motivo di costume e la moralità che la deve sostenere (gli eccessi della moda e gli eccessi della tradizione) finiscono, per la intrinseca debolezza del Fagiuoli, per sciogliersi in una soluzione scettica, poco impegnativa e poco convincente: «Aver cura di donne è pazzia». E lo stesso innegabile maggiore sapore di vita contemporanea troppo spesso si affida al semplice giuoco degli effetti comici del parlato, sia nel buffo misoginismo del falso cavaliere che non può neppure sentire nominare le donne (e Anselmo dovrà ricorrere a buffe perifrasi, dovrà mascolinizzare i nomi femminili), sia, e piú, negli equivoci provocati dall’approssimativo francese di Scappino.

Sicché, se il Fagiuoli venne proclamato «il graziosissimo Terenzio de’ nostri tempi», tale valutazione sembra corrispondere, piú ancora che alla concreta opera del Fagiuoli e alla sua volontà programmatica poco impegnativa e modesta, alle intenzioni piú chiaramente rinnovatrici dell’altro commediografo toscano del primo Settecento: Jacopo Angelo Nelli.

L’opera di Jacopo Angelo Nelli[131] appare indubbiamente, pur nelle particolari condizioni della tradizione toscana, piú legata – rispetto a quella del Gigli e del Fagiuoli – alla precisa volontà programmatica dell’Arcadia, piú aperta ad una maggiore precisazione concreta della civiltà letteraria del «buon gusto» e a una maturazione della società settecentesca con i suoi ideali di eleganza, di misura, di socievolezza, di spontaneità e razionalità, accordate su di un piano di consapevolezza che appare men sicuro nell’opera del Gigli o in quella del Fagiuoli.

Insomma l’opera del Nelli, che quanto ad ispirazione non raggiunge la estrosa forza del Gigli, appare, nella storia del teatro di primo Settecento, piú «moderna», piú «settecentesca» e, per le sue intenzioni programmatiche, piú vicina al programma innovatore goldoniano.

Buon senso, buon gusto, vera dottrina, donna savia e prudente: ecco gli ideali del Nelli, della sua epoca e in particolare dell’interessante ambiente culturale senese cui si lega la sua formazione. E questi ideali, come l’antipatia per l’inverisimiglianza e l’innaturalezza (punti essenziali nello stesso programma goldoniano), si ritrovano chiaramente esposti ed organizzati in funzione di una «commedia moderna» nelle diverse lettere-prefazioni che il Nelli scrisse negli anni piú maturi, quando la sua attività di commediografo si fece piú esclusiva ed impegnativa.

In queste prefazioni il Nelli si preoccupa soprattutto di difendere un coerente programma di rinnovamento: alla proprietà e correttezza stilistica (per la quale anche il Nelli fece particolari studi linguistici e scrisse persino una grammatica italiana per proprio uso e consumo), alla eleganza e chiarezza devono corrispondere, piú in profondo, l’organicità, la verisimiglianza, la naturalezza; e l’essenziale scopo morale ha d’altra parte bisogno di una rappresentazione efficace della vita contemporanea, di personaggi vivi e convincenti.

Sicché, riferiti i soliti precetti classici della commedia che castigat ridendo mores e dell’omne tulit punctum qui miscuit utile dulci, il Nelli si preoccupa soprattutto che la rappresentazione dei vizi e delle virtú «piú in uso e alla moda» sia il piú possibile «ben circostanziato», ben rilevato («nella piú chiara veduta» e «in buon lume»), che

l’imitazione de’ caratteri sia giusta, verisimile e continuata, e che siano rappresentati specialmente quali siano gli uomini, ch’è la piú efficace, la piú utile e la piú dilettevole imitazione delle tre che ne pone Aristotele: quali le persone sono, quali dovrebbero essere, quali ci immaginiamo che siano.[132]

E la richiesta della verisimiglianza mediante le precise «circostanze» e l’evidenza, continuità e veridicità dei «caratteri moderni», si unisce a quella della organicità e complessità ben articolata della commedia, del suo movimento generale, a cui devono servire le singole scene, mai fine a se stesse e mai d’altra parte sacrificate ad uno schema troppo rigido e ridotto[133].

Il Nelli appare dunque – sulla base della precettistica classica e delle piú moderne esigenze arcadiche – ben consapevole delle qualità desiderabili in una commedia «moderna», corrispondente alla nuova cultura razionalistica, al bisogno di una rappresentazione non farsesca o romanzesca, ma organica nel suo nucleo poetico-etico, nel suo legame con la vita del tempo, nella sua coerente costruzione complessa ed unitaria in ogni particolare: dai personaggi organici nel loro carattere, e dal loro incontro efficace e giustificato, alla coerenza dell’azione e delle scene in cui si svolge, allo stesso linguaggio che il Nelli vuol sí insaporito, secondo la tradizione toscana, di proverbi, modi di dire popolareschi e comici (ma chiari e comprensibili e magari accresciuti e rinnovati in creazioni personali purché efficaci e divulgabili)[134], ma che soprattutto desidera preciso e «corrente», «corretto» ed agevole secondo una formula di eleganza chiara ed efficace che ci porta anch’essa ad una fase piú avanzata del gusto arcadico. Come a questa ci conducono molte caratteristiche di contenuto e di poetica del commediografo senese, che, piú di altri scrittori arcadici, mostra pure di avere piú precise preoccupazioni tecniche circa l’esecuzione teatrale, la recitazione dei buoni attori, la differenza di effetto di un testo fra lettura e spettacolo[135].

E se le preoccupazioni morali hanno grande posto nel suo programma (con la solita prudenza arcadica di colpire i vizi «senza offender però l’onestà pubblica»), il Nelli sente – coerentemente al desiderio di un’opera organica, ben legata e articolata, efficace e senza dispersioni ed indugi – l’essenziale ed ovvia necessità che le commedie abbiano «varietà, movimento e fuoco in se stesse» («altrimenti riescon sempremai fredde e rincrescevoli»[136]), siano insomma insieme «istruttive, saporite e piacevoli», animate e ben diverse da una «lezione morale».

In realtà, quando si passa dal campo del programma e delle intenzioni a quello dei risultati, ci si accorge che il Nelli non possedeva una vis comica adeguata alla sua esigenza programmatica e lo stesso ritmo dell’azione, piú armonico e coerente che nel Fagiuoli e nel Gigli (se si esclude la particolare situazione del Don Pilone), subisce nelle sue opere come un progressivo rallentamento, un indebolimento che sembra richiedere, piú che tagli di scene inutili o parentetiche (come spesso avviene nel Fagiuoli), una mano piú energica che raddensi le parti piú diluite e piú stanche.

Cosí come il suo linguaggio, notevole per un’eleganza media, per una forma di parlato piú comune e corrente, piú moderno e fluido, manca di quella intima vivacità, di quella vibrazione e animazione che, al di là della risentita originalità del Gigli e della piacevolezza del Fagiuoli, sarà cosí costante nel Goldoni anche nelle sue opere piú artigianali e meno poetiche.

La coerenza del ritmo si fa spesso monotonia e la fusione del linguaggio opacità, grigiore, sí che le sue commedie in generale valgono piú come documento di una tecnica teatrale piú avanzata e corrente che non come opere artisticamente vive e convincenti. E tali limiti essenziali non vengono interamente superati neppure in quelle due commedie della sua maturità, Le serve al forno e La suocera e la nuora, che pure si staccano dalle altre sue commedie per una maggiore originalità e per un’attuazione migliore del suo programma.

A questi due risultati migliori il Nelli giunse attraverso un esercizio assai lungo e faticoso, mal precisabile nel suo esatto cammino per mancanza di una cronologia sicura, ma abbastanza facilmente rappresentabile in sintesi come passaggio da opere piú vicine alla commedia italo-spagnola (come Il viluppo e Gli amori tra gli sposi non conosciuti, cosí indicativi nel titolo, e degli anni 1709-1710) e da opere piú apertamente farsesche, con utilizzazione degli scenari della commedia dell’arte (la cui presenza, ripresa con le nuove esigenze di regolarizzazione e di caratterizzazione, è piú evidente in commedie come I vecchi rivali o Il geloso in gabbia), ad opere che, sull’esempio del Molière e dei minori commediografi francesi di fine Seicento, puntano piú decisamente su di una preminenza del personaggio centrale (come avviene ad esempio nella Moglie in calzoni, con il rilievo assai riuscito della virile e caparbia Ciprigna, e come avveniva già precedentemente con la protagonista della Serva padrona), o tentano una piú vasta rappresentazione di vita «moderna» con la piú chiara accentuazione moralistica degli Allievi delle vedove che ha un singolare finale tragico o con un piú forte impiego di una satira culturale nella Dottoressa preziosa, che si rifà alle Précieuses ridicules e alle Femmes savantes del Molière e satireggia l’arretrata mania dei romanzi secenteschi e del marinismo, e la stessa infatuazione classicistica di primo Settecento.

Nelle Serve al forno il Nelli fece la prova piú ardita di dar vita e voce ad un mondo curioso e pettegolo, vario e mosso, né d’altra parte privo di personaggi piú individuati, legati fra loro da un procedimento «corale». Tra forno, strada, interno di una casa borghese si muovono le tre serve, i fornai, il servo Rattoppa, con i loro pettegolezzi sui propri amorazzi e sulle complicate vicende dei padroni (il vecchio Agridemo, avaro e innamorato della candida pupilla Simplicia) alla cui soluzione felice (Simplicia sposerà il giovane di cui è innamorata) essi collaborano in un’atmosfera piacevole di vita quotidiana e in un intreccio di voci e linguaggio «plebeo», ma non «vile» (alla luce delle esigenze arcadiche di popolarità «ingentilita»).

Ma, in definitiva, l’interessante e intelligente impostazione come rappresentazione di un ambiente in movimento, le sue innegabili qualità tecniche e sceniche, la migliore individuazione di figure e voci nel loro incontro e nelle loro sfumature ben graduate, vengono poi a smorzarsi nella fondamentale monotonia e opacità del Nelli, che ne riduce l’effetto complessivo e ne diluisce la forza ed il ritmo, sempre piú allungato e ripetuto nelle sue volute ampie e indugianti.

Nella Suocera e la nuora che fa, molto da lontano, pensare alla Famiglia dell’antiquario del Goldoni, il disegno è diversamente piú chiuso e delimitato di quello delle Serve al forno, che tendeva ad un movimento tra due centri scenici e al vario giro dei pettegolezzi e degli intrighi delle serve e di Rattoppa, e si può dire che, se poi la complicazione di Bireno e delle sue trame coincide con la maggiore faticosità dell’azione e del ritmo piú lento ed incerto, l’impostazione del contrasto delle due protagoniste nel contrappunto costituito dai due mariti e dai servi (specie la servetta Zughetta che è una Dorina piú castigata e meno impetuosa) è davvero chiara e felice e tutto il I Atto e il finale della commedia, che alla soluzione di questo contrasto piú direttamente è rivolto, sono (a parte il Don Pilone del Gigli) gli esempi piú notevoli di una tecnica comica elaborata e rispondente alle nuove esigenze settecentesche prima del Goldoni.

11. Il melodramma

Se nel campo della tragedia e della commedia gli arcadi operarono con proposte ed opere intese ad una riforma che mirava a ricostituire quei «generi» teatrali in una loro maggiore dignità letteraria, senza negarne la generale validità, nel caso del dramma per musica o melodramma la loro prima posizione fu piú radicale e polemica, fino alla molto spesso dichiarata volontà di cacciare dalla letteratura un genere ibrido e assurdo che appariva come la sintesi delle stesse peggiori caratteristiche del «malgusto» barocco. Piú che di riforma si trattava di lotta variamente dura e decisa contro un ircocervo, un mostro poetico, un coacervo di inverisimiglianza, di mescolanza di tragico e comico, di immoralità e di eccessiva prevalenza del sentimento erotico (contro il quale essi si battevano anche nella tragedia) e insieme come la piú forte forma di degradazione (assieme al rifiuto dell’opera scritta nella commedia dell’arte) della poesia asservita alla musica, al puro «piacere degli orecchi» e alla sontuosità spettacolare e scenografica, puro «piacere della vista».

Naturalmente tale dura condanna era tanto piú motivata dalle condizioni del melodramma barocco e di ultimo Seicento, in cui l’originario equilibrio fra poesia e musica nel melodramma della scuola fiorentina del Rinuccini e dei Peri e Caccini (quando la musica poteva ben apparire come sollecitata dallo spirito della poesia[137]) appariva rotto e il testo poetico nettamente subordinato o addirittura ridotto a pretesto per l’assoluto predominio della musica e dello spettacolo. Cosí al severo Gravina, nel capitolo ventesimo del trattato della Tragedia, il dramma per musica appariva non suscettibile di correzione e riforma per il totale asservimento della poesia alla musica e alla scenografia, per la sua «meccanicità», per il naturale prevalere di un amore «chimerico» che rifiutava «ogni espressione di altro costume e di altra passione» e cosí decurtava incurabilmente «l’infinita varietà dei casi umani». E mentre il Crescimbeni non voleva neppur parlare del melodramma perché privo di ogni regolarità e per il «guazzabuglio» dei personaggi che invano lo Zeno cercava di districare e semplificare[138] e il Martello piú scetticamente proponeva di abbandonare il dramma per musica al suo inferiore piacere abnorme e alle sue imperfezioni, irregolarizzabile e irriformabile[139], il Muratori, nel capitolo quinto del libro terzo della Perfetta poesia, in un’ampia ricapitolazione delle accuse al melodramma, puntava globalmente sulla innaturalezza, inverisimiglianza, improbabilità di esso[140], sul suo ricorso a espedienti, equivoci, colpi di scena, sulla sua «effeminata tenerezza», sulla sua mescolanza disorganica di toni comici e tragici, e sul fatto che, nello sviluppo storico del melodramma,

si è la poesia posta vilmente in catene, e laddove la musica una volta era serva e ministra di lei, ora la poesia è serva della musica.[141]

Malgrado queste scomuniche la vitalità del dramma per musica opponeva una salda resistenza e, nello svolgersi della stessa Arcadia, si dovrà osservare come da una parte si pronunciassero prospettive programmatiche di «riforma» anche in quel campo, dall’altra si dispiegasse una vasta attività di riforma concreta nella costruzione di drammi per musica variamente affiatati con le esigenze piú generali della poesia arcadico-razionalistica.

Per quanto riguarda le proposte programmatiche – associate alla ripresa delle condanne magari in forma parodistica e comica, che uniscono alla critica di fondo del decaduto melodramma barocco quella alla vita e al costume teatrale, ai cantanti e agli attori e alla loro ignoranza e sciocca presunzione –, basti pensare al Teatro alla moda (1720) del musicista veneziano Benedetto Marcello (1686-1729): testo da considerare insieme per il suo valore letterario, per la sua prosa vivace e costruita con sapienza e brio, con un ritmo solo apparentemente monotono e in realtà gustosamente ossessivo nella sua fermezza didascalico-parodistica, con l’apertura frequente a vere e proprie scenette comiche e caricaturali, mescolate in un caleidoscopio variopinto, agitato e presentato in un movimento di figure – cantanti «virtuose», impresari, comparse, suggeritori, protettori e madri delle virtuose – che evidenzia coerentemente lo stato di disordine, la mancanza di gerarchia di valori, il prevalere di interessi extra-artistici e di qualità di ignoranza, vanità, sbadataggine[142] di un mondo di esecutori cui corrisponda un’opera disorganica e dilettantesca. E di questa opera e genere decaduto il Marcello non decreta la morte, ma intende promuovere una riforma e rinascita alla luce delle istanze arcadiche e classicistiche di organicità, di verisimiglianza, di ordine, di intima serietà dello scrittore e del musicista (addirittura desiderati uniti in una sola persona), di corrispondenza fra testo e musica, da parte di un musicista e letterato colto, ammiratore dei classici antichi e italiani, fautore di una letteratura seria e spiritualmente tesa, personalmente esercitata con sincero impegno morale e religioso e con una volontà di dignità stilistica piuttosto rigida, nei numerosi sonetti A Dio che ricongiungono il Marcello alle istanze etiche di certa linea arcadica settentrionale e fanno da contrappeso alle piú franche qualità comico-satiriche che si esprimono appunto nel Teatro alla moda sulla base di un contrasto fra un ideale teatrale assai alto e una realtà irrazionale e senza «buon gusto».

Ed è sulla via della serietà morale e delle esigenze di regolarità e organicità tematica, tonale, scrittoria che si mosse – piú che altri scrittori di drammi per musica come lo Stampiglia, il Bernandoni e il Pariati, con il quale egli a volte collaborò in melodrammi per la corte di Vienna – il veneziano Apostolo Zeno (1669-1750), figura complessa di valente erudito, amico del Maffei e del Muratori[143], promotore di giornali letterari-eruditi (la «Galleria di Minerva» e soprattutto il «Giornale dei letterati d’Italia», programmato dal Maffei e redatto dallo Zeno e dal suo fratello Pier Caterino) e insieme scrittore soprattutto di drammi per musica – per i teatri veneziani e per la corte imperiale di Vienna, dove egli fu «poeta cesareo» dal 1718 al 1728 –, ai quali la sua stessa preparazione e preoccupazione storica e i suoi severi ideali morali, che lo portavano a considerare con grande serietà la funzione educativa e civile dei suoi drammi, dettero una prevalente direzione di tematica e di tono austera e rigida, motivata anche – come ben mostra una sua lunga lettera del 1735 all’imperatore Carlo vi e all’imperatrice Elisabetta[144] – dal suo impegno viennese e dalla destinazione dei suoi drammi viennesi ad una corte e a principi assolutistici-paternalistici.

Cosí, pur nella varietà dei soggetti dei suoi numerosissimi drammi, spicca la tematica eroico-virtuosa appoggiata alla storia greca e romana o quella religiosa dei suoi drammi, oratorii e «azioni sacre».

All’espressione di tale tematica, ben congeniale alle istanze piú rigorosamente morali e alla volontà grandiosa degli inizi arcadici e particolarmente del côté settentrionale, lo Zeno adibí – con una certa rigida coerenza applicativa e con uno sforzo faticoso e piú meccanico – la riforma dei piú vistosi difetti ed «abusi» del dramma per musica quali essi apparivano ai teorici arcadici e nella realtà delle opere di ultimo Seicento: l’abolizione dell’impasto di tragico e comico, l’applicazione delle regole delle unità, la ricerca di organicità e verisimiglianza delle trame, di un discorso poetico razionale e comprensibile («studiai di far ragionar le persone», egli dice nella lettera citata[145]), pur avvertendo sempre una certa scontentezza per gli impacci delle necessità musicali, fra i quali le «arie» in cui particolarmente lo Zeno dimostra il suo impaccio, la striminzita gracilità e certo stento e goffaggine e persino il ricorso, per queste parti cantabili, a moduli di «barocchetto» che tanto piú lo separano dalla fluidità metastasiana. Cosí come la necessità di dar voce anche alla passione amorosa – pur subordinata alla problematica eroico-virtuosa e storico-politica – trovava nel moralismo dello Zeno un forte impaccio e accresceva quella generale impressione di fatica e di secchezza, di opacità e rigidezza che danno un po’ tutti i suoi drammi, pur notevoli per una generale capacità di struttura e di decoro.

Per la sua intrinseca secchezza sentimentale e fantastica e per le condizioni del suo gusto piú rigido e moralistico, per la difficoltà delle soluzioni tecniche e linguistiche (con forti squilibri fra «canoro» e discorsivo, fra patetico impacciato e grandioso spesso troppo elevato e inarcato, fra rigida decisione eroica e una piú complessa, ma ancora rigida perplessità psicologica), l’opera melodrammatica dello Zeno appare contraddistinta da un che di piú arcaico rispetto allo sviluppo del gusto arcadico maturo, da una qualità piú di decoro (si pensi soprattutto a drammi come il Lucio Vero o l’Alessandro Severo) che di poesia, da una esemplarità del melodramma piú di «regolamento» che non di una sua efficace nuova vita poetica e teatrale.

Limiti e importanza che ben furono indicati poi dal Metastasio, che in una tarda lettera del 1767, ripensando alla storia del melodramma fra Seicento e Settecento e alla funzione che vi aveva avuto il suo «precursore», cautamente segnava la scarsa forza poetica dello Zeno, ma insieme ben rilevava i suoi meriti di avvio di un’operazione di riforma positiva della struttura dei drammi per musica:

Quando mancasse ancora al signor Apostolo Zeno ogni altro pregio poetico, quello di aver dimostrato con felice successo che il nostro melodramma e la ragione non sono enti incompatibili, come con toleranza anzi con applausi del pubblico parea che credessero quei poeti ch’egli trovò in possesso del teatro quando incominciò a scrivere, quello, dico, di non essersi reputato esente dalle leggi del verisimile, quello di essersi difeso dalla contagione del pazzo e turgido stile allor dominante, e quello finalmente di aver liberato il coturno dalla comica scurrilità del socco, con la quale era in quel tempo miseramente confuso, sono meriti ben sufficienti per esigere la nostra gratitudine e la stima della posterità.[146]

E proprio al di là della riforma dello Zeno – e in una tanto piú complessa operazione poetica e tecnica al livello delle piú centrali e maturate esigenze dell’epoca arcadico-razionalistica e tenendo ben conto di molte delle stesse ragioni della polemica contro il melodramma – solo il Metastasio riuscí a realizzare nel melodramma la piú sincera espressione poetica del tempo. Sicché proprio il Muratori, che tanto aveva polemizzato con le forme del melodramma, all’epoca della Perfetta poesia, nei primi anni del secolo, dové poi, tanto piú tardi – quando l’opera melodrammatica metastasiana aveva raggiunto la sua piena maturità – riconoscere che il Metastasio, poeta del melodramma, era il maggiore poeta del tempo: «Insomma la conclusione si è che io non conosco oggidí poeta, che possa pretendere uguaglianza con cotesto felicissimo ingegno», egli scriveva il 27 gennaio 1735 in una lettera al Riva, concludendo cosí un ampio elogio del Metastasio, presente anche in altre sue lettere di poco precedenti o successive.


1 Egli, pur severo con l’Arcadia nei suoi aspetti di frivolezza e mediocrità morale e poetica, rilevò positivamente il valore dell’educazione stilistica e della ripresa della lezione dei classici da parte dell’Arcadia (vedi il commento alle Rime del Petrarca, Livorno 1876, p. XV), mentre nella sua raccolta di poesia del Settecento rilevò, con grande finezza, i pregi tecnici e stilistici di tanti rimatori anche dell’epoca arcadica. Meno poté influire sul corso della valutazione dell’Arcadia l’intervento del Carrer che pur merita di essere ricordato sulla linea di un apprezzamento dell’Arcadia come inizio e preparazione della nuova letteratura lontana dalle «fantastiche esorbitanze del secolo precedente», che i modesti arcadi avrebbero «sedato», preparando «il campo alle onorevoli fatiche di quegli ingegni che seguirono» (Opere, Firenze 1855, III, p. 509).

2 «Il capitolo primo dice l’istituzione dell’Arcadia e narra tra le altre fanfaluche il caso memorandissimo di un certo poeta, il quale avendo sentito cert’altri poeti recitar certe pastorali poesie in certi prati situati dietro un certo castello proruppe in questa miracolosa esclamazione: Egli mi sembra (notate quell’enfatico egli) egli mi sembra che noi abbiamo oggi rinnovato l’Arcadia. Oh magica esclamazione alla quale deve l’Arcadia il suo nascimento, come da un piccolissimo seme nasce una zucca molto smisurata; o per dirla con piú dignità come certi giannetti di Andalusia è fama debbano l’esser loro a l’ingorgarsi di un po’ di vento Favonio nella matrice di certe puledre... Cosí gli italiani usavano nel seicento di cibarsi di pan muffato, e furon sforzati in quel bosco Parrasio a nutrirsi quindinnanzi di pane azzimo, ma, per esprimersi arcadicamente, si chiama bon gusto il pane azzimo... Povera Italia, quando si chiuderanno le tue scuole di futilità e di adulazione!» (La frusta letteraria, a cura di L. Piccioni, Bari 1932, I, pp. 9-10 e 13). Il volume cui il Baretti si riferisce è quello delle Memorie istoriche dell’adunanze degli Arcadi, del Morei, Roma 1761.

3 Si rilegga per tutte la dichiarazione del Crescimbeni nella dedica al principe Ruspoli del vol. I delle Rime degli Arcadi (Roma 1716, p. VI): «Per lo totale risorgimento del buon gusto nelle belle lettere cotanto in Italia nel passato secolo deteriorato, fu istituita, hor ventisei anni, in Roma la ragunanza degli Arcadi; la quale con tal fervore e attenzione vi si è adoperata, che ha conseguito pienissimamente il suo fine, veggendosi quelle coltivate universalmente con ogni piú esquisita maniera, e per avventura con qualche novità e leggiadria di piú che prima della caduta non godevano. Io metto al pubblico questi sentimenti, perché di vero tale fu il fine dell’istituzione di Arcadia e perché tutti gli autori che in simili materie hanno scritto nel corso del tempo suddetto, ben dall’esito conoscendo la verità, una sí bella gloria le concedono».

4 Tutta una minuta esplorazione nelle colonie arcadiche cittadine – sui rapporti in quelle fra letteratura, cultura, vita di società, sui rapporti fra istanze arcadiche generali ed elementi di tradizione – è ben desiderabile. Ne accennai a proposito della situazione arcadica di Piacenza, in una scheda della «Rassegna della letteratura italiana» (1954, 4, p. 658) sul saggio di C. Donati, Il marchese Gioseffo Tedaldi (in «Bollettino storico piacentino», 1954).

5 Il Marchetti è autore anche di importanti traduzioni di Anacreonte che, con quelle del Corsini, del Salvini e di Régnier Desmarais, influenzarono fortemente la formazione dell’anacreontismo arcadico nella direzione di un interesse prevalentemente linguistico, in cui sono evidenti le preoccupazioni di chiarezza, ordine, evidenza anche nell’intonazione galante e preziosa, fra «barocchetto» e rococò.

6 Riportate nel vol. IV delle Rime degli Arcadi, Roma 1717. Sono assai indicative, per la qualifica e l’accettazione arcadica di poesie scritte prima dell’apertura dell’Accademia romana, le scelte fatte delle opere di questi prearcadi, e poi arcadi ufficiali verso la fine della loro vita, nei volumi delle Rime degli Arcadi (Roma 1716-1780, tomi 13).

7 E se le sue relazioni toccano anche scrittori ancora chiaramente secenteschi, ma attenti almeno a quella cura di lingua che è cosí al centro dei suoi interessi (Aprosio, Segneri, ecc.) è ben significativo quanto il Maggi gli scriveva (7 aprile 1683, in F. Redi, Opere, Napoli 1778, V, p. 110) circa l’efficacia dei suoi sonetti mostrati ad alcuni giovani «che si van mettendo sulla buona via».

8 In tal senso lo stesso esame della sua prosa scientifica può dimostrare il rapporto che intercorre fra le sue esigenze in sede di gusto e di lingua, il suo spirito lucido e razional-sperimentale, e una prosa chiara, concreta, agile, capace di captare e rappresentare, in un ritmo minuto e rapido, oggetti e forme della realtà indagata e analizzata con l’acuto gusto di verificare le leggi «solite e consuete» della natura nella sua spontaneità e razionalità o di smontare le false credenze della pseudo-scienza barocca.

9 Cfr. la lettera al Bellini del 25 gennaio 1687 (Opere, ed. cit., VI, p. 251).

10 La posizione del Menzini rispetto al distacco dal barocco – per quanto cosí netta e ben piú consapevole di quella di un Redi che manca di un’esplicita, precisa polemica – si distingue però da quella piú drammatica di altri scrittori di altre regioni, a cui la «conversione» dal barocco al «buon gusto» è momento essenziale e persino ingrandito e sottolineato dai loro biografi arcadici (si pensi al caso del Guidi per il quale il Martello fantasticava di una malattia causata dall’intimo contrasto fra l’educazione barocca e la vocazione al rinnovamento!), proprio perché la sua stessa educazione fiorentina era stata fuori dei veri termini barocchi, sicché egli, nella prefazione alle Elegie, poteva considerare con soddisfazione «l’essersi potuto sin dal principio segregare dalla corruttela del secolo. Perché ad alcuni altri, per andare avanti, è stato bisognevole tornare addietro; ed alcuni non han trovato modo di togliersi dal depravato costume» (Opere, Firenze 1731, vol. II, p. 263). Dove si può coglier l’orgoglio di un letterato che rivede il proprio svolgimento come naturale, spontaneo e sicuro (e forse un accenno polemico alla ben diversa situazione del Guidi, suo rivale nell’Accademia di Maria Cristina), e che considera il proprio «buon gusto» come frutto di un accordo fra vocazione ed educazione congeniale (non di atti di volontà e di influenze esterne), di atteggiamenti mutuati da una tradizione che egli sentiva coerente e centrale proprio nell’ambiente culturale e letterario di cui egli era il rappresentante piú avanzato e cosciente, l’autorizzato interprete.

11 Si vedano le Lettere del Menzini, nel vol. III delle Opere, ed. cit., specie quelle al suo prediletto allievo, Francesco Del Teglia.

12 Il tema delle stagioni, cosí congeniale allo spirito arcadico e di primo Settecento (si pensi a Metastasio e Rolli, a Vivaldi e poi, piú tardi, a Haydn), è ben sviluppato in alcune pagine assai piacevoli della Accademia Tusculana (in Opere, ed. cit., vol. III, pp. 146-147), che rilevano in quella costante vicenda l’incontro di libertà e regolarità naturale e il piacere rasserenante che l’animo ne ricava, lo stimolo a vivere un ritmo ordinato e spontaneo e a cercar di trasporlo in una poesia che di quella vicenda rifletta l’ordinata regolarità, la varietà piacevole e sempre rinnovata, nel suo fondo costante, dall’animo che la rivive.

13 B. Menzini, Arte poetica, libro IV, in Opere, ed. cit.

14 O le estreme prove di linearità – per paura di ogni eccesso ed enfasi barocca – di certe canzonette, di certe canzoni petrarchesche.

15 B. Croce, Un giudizio del Macaulay sul Filicaia, in Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari 1949, pp. 326-333.

16 «Sembra non parli, ma canti, anzi urli, col pugno teso, gli occhi stralunati, gli atti convulsi» (F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Bari 1949, II, p. 202).

17 Nell’epistolario del Redi e poi nel Ditirambo (che precisa assai bene una specie di carta italiana, in cui sono indicati i letterati e i centri della nuova cultura e della nuova letteratura) compaiono assai spesso i nomi del «savio» Maggi e del De Lemene come di uomini ormai fuori dell’inganno barocco e del secolo «depravato» (l’espressione è del Panciatichi, censore della I edizione, 1674, delle Rime di Benedetto Menzini). D’altra parte proprio nel Settentrione non erano mancate nel tardo Seicento esperienze di un barocco piú moralmente impegnato (il caso di Ciro di Pers, del Dottori, e, piú ancora, del lombardo Dotti) che potevano pur offrire una certa particolare base di poesia morale alle nuove esperienze prearcadiche.

18 Su di lui si veda la Vita scritta dal Muratori (in Opere, Milano 1700, o in Vite degli Arcadi illustri, Roma 1708-1727, I), che fortemente sostiene l’esemplarità antibarocca del Maggi.

19 «Sono a Lesmo solo soletto per fare i conti con i massari; bella vista e luogo quieto per discorrere coi propri pensieri. Alla mattina mi indugio a letto, fino a che il sole mi viene addosso, fino a che il cuoco muove le leccarde e sono stufo di stare in riposo. Di fare i conti coi fittavoli non m’affanno perché ho tempo e agio, e sto a letto contando i correnti e facendo castelli in aria». Riportiamo testo e traduzione da Le Rime milanesi di Carlo Maria Maggi, ed. critica di D. Isella, in «Studi secenteschi», rivista annuale a cura di C. Jannaco e U. Limentani, vol. VI (1965), Firenze 1966, p. 197.

20 Si veda in proposito quanto il Muratori dice nella Vita di C.M. Maggi, Milano 1700, soprattutto alle pp. 117-119.

21 Il conformismo religioso del De Lemene è quanto mai rigido e nella stessa maniera con cui nella dedica del volumetto Dio designa il papa come «Vicedio» si può costatare una forma di ossequio esteriore davvero sconcertante. Simili forme non si trovano nell’opera piú intima e libera del Maggi, anche se la sua dedica dell’edizione fiorentina delle Rime del 1688 al generale dei gesuiti, Tirso Gonzáles, attribuiva ai gesuiti il merito di aver contribuito ad allontanarlo dai soggetti «lascivi» barocchi e di averlo avvicinato alle «materie morali e pie», «molto piú largo e piú nobil campo» «a chi sappia scorrerlo».

22 Per i testi del De Lemene si veda l’edizione Poesie diverse, Milano-Parma 1699.

23 Nell’opera del De Lemene la melodia è dunque sempre presente (meno però nel Dio, piú retorico ed espositivo) e costituisce l’elemento piú tipico di questo rimatore di barocchetto melodico. Notevoli per tale predominio del canto il Narciso, La ninfa e Apollo (favole boscherecce), con ariette che bene indicano il legame e la lontananza insieme fra queste forme «barocchette» e quelle veramente arcadiche e rococò del Metastasio: «Sei pur dolce o libertà / ma di te la gran dolcezza / chi la gode non l’apprezza / la sospira chi non l’ha. / Sei pur dolce o libertà...».

24 Per i testi del Guidi si veda l’edizione Poesie liriche di Alessandro Guidi, Parma 1671 (e non 1681, data tramandata erroneamente dal Crescimbeni e poi sempre ripetuta dagli studiosi).

25 U. Foscolo, Opere, VIII, Firenze 1933, pp. 141-142.

26 Per il Giannone si rivedano le pagine del capitolo III della sua Vita in cui ricorda con gratitudine profonda gli uomini di cultura che lo educarono insieme alla «solida» filosofia e al culto della buona lingua e dei «buoni poeti e dei piú culti scrittori toscani» (specie il Petrarca), allontanandolo cosí per sempre dal secentesco piacere delle «strane e ardite metafore», dei «contrapposti» e delle «fredde antitesi».

27 Il Ceva fu attivo soprattutto (a parte il poemetto Puer Jesus, piú avanti ricordato) nella polemica filosofica contro il cartesianismo e il gassendismo, opponendo ad essi il vecchio aristotelismo scolastico (nella Philosophia nova antiqua, scritta in esametri latini). Non va confuso con Teodaldo Ceva (1697-1746), scolaro del Muratori e compilatore di due scelte di sonetti e di canzoni ispirate alla opposizione al «malgusto» secentesco e oggetto poi di lunghe polemiche, specie per alcuni suoi rilievi limitativi sul Petrarca.

28 Si pensi a quanto il Ceva dice sulla bellezza «che non è strepitosa né si mostra con fasto soperchiando l’occhio di chi la mira» (Memorie d’alcune virtú del signor conte F. De Lemene ecc., Milano 1706, p. 156). Proposizione ben arcadica e antibarocca, anche se poi a volte il libretto del Ceva può autorizzare l’idea di una posizione arcadico-barocchetta che riporta – ma entro una direzione nuova – elementi di eredità secentesca, cosí come certo l’aspirazione nuova alla naturalezza e alla grazia si converte di fatto (in piú forte coincidenza con il testo lemeniano) in un reale gusto di manierato e di oleografico.

29 Nella Vita di C.M. Maggi cit.

30 Come poi si potrà vedere nella polemica del Maggi e nelle accuse del Maffei al suo stile impoetico e «invenusto», altrove da me ricordate.

31 Vita di C.M. Maggi cit., p. 66.

32 Al «buon gusto universale» del resto si lega direttamente l’intuizione nelle Riflessioni, di un criterio estetico generale «capace di cogliere l’universale» della poesia, «l’animo e lo spirito dei poemi», sotto «l’esterna bellezza» e le forme particolari, storiche e nazionali, delle varie opere poetiche.

33 Della perfetta poesia italiana, Milano 1821, I, p. 11.

34 Della perfetta poesia italiana, ed. cit., I, p. 63.

35 Gli scritti di quella polemica vennero poi raccolti prima nel 1707, poi, col titolo del primo scritto dell’Orsi, in due piú folti volumi, a Modena nel 1735.

36 Al Montani va riconosciuto anche un piú forte sentimento della necessità, per il critico, di un autentico «ardore di fantasia» e di «quel commovimento e quell’ebrietà di spirito agitatore» «necessario al trovatore del poema» (G.G. Orsi, Considerazioni cit., II, p. 35).

37 Per la limitazione corretta della novità del Becelli rimando al paragrafo a lui dedicato dal Fubini nel suo volume Dal Muratori al Baretti, Bari 1954, pp. 169-182.

38 Egli curò i primi nove volumi delle Rime degli Arcadi (Roma 1716-1722), le Prose degli Arcadi (3 voll., Roma 1718), i primi quattro volumi delle Vite degli Arcadi illustri (Roma 1708-1727), le Notizie istoriche degli Arcadi morti (Roma 1720-1721). Scrisse la Arcadia (Roma 1708; ed. ampliata, Roma 1711), specie di storia in forma di romanzo pastorale delle origini dell’Accademia con testi poetici di vari arcadi.

39 Sono raccolti insieme nelle edizioni del 1714 e del 1730-1731 (Venezia, a cura degli Zeno e del Seghezzi).

40 Assente è ogni eco del Guidi, che il Crescimbeni escludeva dalla vera educazione dei futuri poeti. E si può pensare che gli elogi e le cure del Crescimbeni come biografo del Guidi fossero non solo riconoscimento della posizione di eccezione e dell’ingegno del poeta pavese, ma anche un atto di diplomazia del prudentissimo Custode volto a non lasciar fuori dell’Arcadia, e magari come nome utilizzabile dagli arcadi ribelli, una personalità tanto acclamata.

41 Il Crescimbeni tenne in grande onore l’improvvisazione ed uno degli avvenimenti piú celebri della sua Custodia fu l’incoronazione in Campidoglio di Bernardino Perfetti (1725), di cui il Crescimbeni tramandò accuratamente gli atti (Roma-Lucca 1725), osando ricordare l’incoronazione del Petrarca, mentre riferiva elogi di altri arcadi che celebravano la supremazia dell’Italia moderna sull’antica a causa della poesia estemporanea, capace di gareggiare insieme con Omero, Virgilio, Orazio e di trattare ugualmente i temi piú disparati, quali furono quelli assegnati al Perfetti: teologia, origine della poesia, fisica, temi pastorali, primato fra le arti, poesia eroica, primato fra ballo e cavallerizza, elogio della musica!

42 Il che sta a cuore al Crescimbeni con la sua tesi dell’autonomia e della dignità della poesia italiana non inferiore a quella classica.

43 È il piú importante per lo studio della poetica arcadica. Meno interessanti i dialoghi in cui si parla di altri generi (poesia tragica, commedia, poesia epica). Notevole nel V la discussione delle favole pastorali.

44 Bellezza della volgar poesia cit., dial. IV, p. 48.

45 Bellezza della volgar poesia cit., dial. IV, p. 51.

46 «I greci rappresentavano direttamente cose sensibili, quando i volgari alle immaginarie si conducono» (Bellezza della volgar poesia cit., dial. VI, p. 46).

47 Discorso di Bione Crateo (uno dei due pseudonimi arcadici del Gravina: l’altro, quello ufficiale, era Opico Erimanteo) aggiunto all’Endimione nell’edizione originale del 1692. L’Endimione era stato composto in parte negli ultimi anni della vita di Cristina e fu recitato in Arcadia nel 1691. Quest’opera cosí debole e sfocata poté piacere al Gravina per la sua natura di favola classica con scarsa concessione a forme cantabili e con intenzioni di organicità e di interna verità morale rivelata appunto in un’organica favola poetica. Cito dall’ed. delle Prose di V. Gravina, a cura di P. Emiliani Giudici, Firenze 1857, p. 249.

48 Prose cit., p. 21.

49 Anche la lirica è per il Gravina l’espressione profonda dell’uomo che si ripiega su se stesso, «lo specchio dell’umana natura», «espression viva di que’ pensieri ed affetti che la natura innesta e di quei casi che si mescolano nel corso di ciascuna passione e nel tratto del vivere umano» (Prose cit., p. 33). Ed anche la lirica ha (solito limite moralistico della concezione graviniana) un’utilità morale: «perciò quando la natura delle nostre passioni è dai poeti rappresentata a minuto ed al vivo, potrà l’animo, sulla contemplazione della loro immagine provvedere a se stesso di rimedio e di fuga» (Prose cit., p. 34). Quanto al legame tra lirica, epica e drammatica: «il lirico beve il medesimo nutrimento che l’epico e il drammatico sí perché il lirico spesso s’aggira intorno alle favole inventate, sí perché egli di passo in passo ne produce, convertendo in figura corporea le contemplazioni» (Prose cit., p. 34).

50 Prose cit., p. 5.

51 Particolarmente importante è il seguente passo del discorso su Sofocle: «Di rado fa filza di sentenze, né fa pompa alcuna di dottrine, ma tutte in sugo le converte, e le stempra per entro della sua favola, come sangue di quel corpo; e, piú col fatto che colle parole, ammaestra l’umana vita. Quanto di fuori raccoglie, quanto frappone, tutto serve e tutto obbedisce alla favola» (Prose cit., p. 52).

52 Giudicata come «sozza invenzione» a cui il Gravina oppone la nobile melica classica e l’endecasillabo sciolto, contrastando anche cosí la spinta piú generale della poesia arcadica al melodico e cantabile.

53 Egli dava tale funzione anche alla stessa convenzione pastorale e per lui la «reversio in Arcadiam» era il ritorno al senso severo della poesia primitiva.

54 Con un chiaro apporto alla storiografia letteraria delle conquiste filologico-erudite piú direttamente ottenute nel campo della storia civile e politica, dell’archeologia e storia locale e soprattutto con un largo sviluppo dell’opera di edizione di classici italiani e di ricostruzione delle biografie e bibliografie, e fortune degli scrittori del passato che trovano un centro di piú vivo interesse nella forma della biografia (e autobiografia) intellettuale e culturale di cui fu promotore piú tardi soprattutto (accanto a tanti altri eruditi di varie parti d’Italia, da Anton Maria Salvini ad Angelo Maria Bandini, a Domenico Maria Manni, a Lorenzo Mehus, ecc.) il padovano Angelo Calogerà (1699-1768), giornalista attivissimo (la «Biblioteca universale» e poi le «Memorie per servire all’istoria letteraria») ed editore dell’importantissima e imponente «Raccolta di opuscoli scientifici e filologici» e «Nuova raccolta».

55 Sul Petrarca non erano mancate polemiche dovute a posizioni di culto (almeno teorico) piú rigido e posizioni piú critiche e libere: come avvenne nei riguardi della Perfetta poesia del Muratori (che precisò la sua ammirazione condizionata nelle Osservazioni) a cui tre arcadi della colonia Ligustica (in realtà assai liberi poi nella loro pratica poetica) opposero una retorica Difesa delle tre canzoni degli occhi e di alcuni sonetti e vari passi delle Rime di F. Petrarca, di G.B. Casaregi, G.T. Canevari e A. Tommasi, Lucca 1709.

56 Non si creda che tale culto del Petrarca non ammettesse nell’opera di questi stessi letterati oscillazioni tra il comporre centonesco del Lazzarini e maniere di leggiadria come nel Ghedini (si veda in proposito Rime degli Arcadi cit., vol. III, p. 149).

57 Le composizioni in suo onore si trovano in Versi e prose, Bologna 1760.

58 Il Manfredi ebbe un disprezzo, non molto comune in Arcadia, per gli improvvisatori e declamatori e nel suo viaggio a Roma nel 1715 non mancò di notare con ironia che là vi erano «piú poeti che mosche» (Lettera a G.P. Zanotti, Roma, 18 maggio 1715, in Delle lettere familiari d’alcuni bolognesi del nostro secolo, vol. I, Bologna 1744, pp. 30-31).

59 La lettera, del 1706, si trova nelle Considerazioni del Marchese G.G. Orsi sopra la maniera di ben pensare ne’ componimenti del Bouhours, Modena 1735, vol. I, pp. 677-701.

60 Per i testi del Manfredi si vedano le Rime, Bologna 1732.

61 Questa canzone, viva perché genuina espressione di uno stato d’animo poetico preciso, ha anche un valore particolarmente notevole come prova di poesia completamente fuori dei termini barocchi (il Manfredi sentiva particolare antipatia per il barocco come forma veramente lontana dal suo spirito equilibrato, chiarissimo, generalmente e puntualmente delicato), come esempio di una vera ricostituzione del discorso poetico sulla base di una rinnovata riuscita attenzione non solo alla realtà naturale, ma a quella dell’animo e delle sue vicende, auscultate con tanta finezza.

62 E qui il Manfredi utilizzava per questa mossa piú decisa versi danteschi del Paradiso (I, vv. 73-75).

63 Il piccolo classicismo miniaturistico arcadico si appoggia anche ad un esercizio di traduzioni (già in atto in zona toscana di fine Seicento) volte soprattutto ad italianizzare Anacreonte (si veda la raccolta Anacreonte tradotto in versi italiani da vari, Venezia 1763).

64 L’attacco del Gravina contro la rima è un altro dei punti di maggior dissenso fra il suo severo classicismo non privo di pedanteria archeologica, che considerava la rima una invenzione di tempi barbari, e il gusto prevalente in Arcadia che tanta importanza dava all’elemento melodico (pur rifiutando un gusto di canto scompagnato dall’armonia interna dello svolgimento tematico e sentimentale) e che nella rima vedeva uno degli elementi essenziali della tradizione poetica petrarchesca. Per una briosa e sensibile difesa della rima (e insieme per la satira della polemica sulla rima e il verso sciolto) si rilegga La rima vendicata del Martello, in Opere, Bologna 1729, V.

65 Lo scarto della esemplarità del Maggi dopo le lodi entusiastiche del Muratori (Vita di C.M. Maggi, Milano 1700), ma poi piú limitate nel Della perfetta poesia italiana, del 1706, è momento estremamente significativo nello sviluppo del gusto arcadico, e in tal senso ha grande importanza la nota lettera del Maffei al conte Garzadoro (su cui importanti considerazioni fece il Fubini nel saggio Le osservazioni del Muratori al Petrarca cit.) che precisa il rifiuto degli arcadi, anche non direttamente crescimbeniani, di una poesia che a loro appariva «prosaica e invenusta», considerabile nella rottura del barocco, ma non nel raggio delle loro esigenze positive e mature. Per la forte insistenza arcadica sul linguaggio poetico nettamente distinto da quello della prosa (e pregio della letteratura italiana di fronte a quella francese) si ricordi ancora la lettera del Manfredi all’Orsi già citata.

66 Il sonetto, già tanto considerato dal Menzini per le possibilità offerte ai poeti di mettere in luce le loro qualità di precisione, di cura dei particolari, di articolazione perfetta ed organica del tema, è anche al centro dell’attenzione del Crescimbeni nel dialogo IX della Bellezza della volgar poesia, il dialogo piú interessante (come si è detto) per lo studio della poetica arcadica crescimbeniana.

67 Ne è pieno soprattutto il III volume delle Rime degli Arcadi cit.

68 Il tema delle rovine compare qua e là nelle Rime degli Arcadi (si vedano le rime del Bonini e dell’Astalli, nel vol. V, pp. 13 e 38) e, con piú continuità, nelle rime del Petrocchi (vol. IV, pp. 9 ss.).

69 Per queste rugiadose allegorie pastorali-religiose si veda ad es. il canzoniere del Bini (Rime degli Arcadi cit., vol. IV, pp. 315 ss.) in cui Filli diviene simbolo dell’amor di Dio e «i sentimenti teologici si cuoprono sotto favole e argomenti pastorali».

70 Tipici i sonettini di Antonio Tommasi (in Rime degli Arcadi cit., vol. VI, pp. 336-342) o le canzonette «minime» del Ciappetti (in Rime degli Arcadi cit., vol. III, p. 56).

71 Rime degli Arcadi cit., vol. II, pp. 127-129.

72 Rime degli Arcadi cit., vol. I, pp. 171-178.

73 Le rime della Paolini Massimi (di cui non esiste un’edizione particolare) si trovano nei volumi I, III, VII e IX delle Rime degli Arcadi ctt.

74 Gli scritti del Martello si leggano in Opere, 7 voll., Bologna 1723-1735.

75 Citiamo dalle Rime dei due Zappi, Venezia 1723.

76 Lo Zappi, nato ad Imola nel 1667, venne a Roma all’età di venti anni e fu tra i quattordici fondatori dell’Arcadia e divenne ben presto il piú acclamato tra i rimatori arcadi. Morí nel 1719.

77 Oggetto, insieme ad altri sonetti zappiani, della durissima polemica del Baretti che, alla luce di un senso piú serio e vigoroso della poesia e delle nuove istanze illuministiche e preromantiche, attaccò violentemente l’«inzuccheratissimo» Zappi come espressione di un’estrema degradazione svenevole ed effeminata della poesia.

78 Con ben altra forza sentimentale e poetica il Metastasio troverà proprio nei «commiati» di innamorati i momenti piú intensi della sua poesia melodrammatica.

79 Rime degli Arcadi cit., vol. II, p. 326.

80 Rime degli Arcadi cit., vol. IV, pp. 322-323.

81 L’adesione piú esplicita al didascalismo severo è nelle prime liriche, come La poesia di G.G. Orsi che è anteriore al 1712. E il Rolli seguí il Gravina nella scissione d’Arcadia e nella costituzione dell’Accademia dei Quirini, anche se poi riprese rapporti con l’Arcadia ufficiale. Né si dimentichi, per i rapporti del Rolli con elementi della poetica graviniana e con generali istanze della critica arcadica, lo scritto rolliano del 1728, Remarks upon Voltaire’s Essay on the Epic Poetry, con cui il poeta italiano polemizzava decisamente con i giudizi voltairiani su Dante, Tasso e Milton, attaccati da lui, specie alla luce della critica graviniana, per la limitatezza razionalistica della critica voltairiana (oltreché per la scarsa conoscenza delle lingue italiana ed inglese da parte di Voltaire), su di una direzione che, con tanto diversa forza critica e con tanto diversa motivazione di gusto, sarà ripresa poi dal Baretti, sia nei confronti dello stesso saggio voltairiano, sia poi, piú vigorosamente e con maturate istanze preromantiche, nei confronti del giudizio shakespeariano di Voltaire nel celebre Discours del 1777.

82 Dal Preambulo alle Ode d’argomenti amorevoli. Seguiamo l’edizione delle Liriche, a cura di C. Calcaterra, Torino 1926.

83 Questi versi si leggono nella prefazione all’Astarto del 1720.

84 Come può confermare anche la celeberrima odicina che il Goethe sapeva a memoria per averla sentita cantare dalla madre e che segna entro il regno del «piacevole» la punta piú acuta di una leggiadra e lievissima sentimentalità melodrammatica, che, con quella tenue tinta oscura e solitaria, in realtà accentua la gamma di possibilità del fondamentale «piacere di vivere»:

Solitario bosco ombroso,

a te viene afflitto cor

per trovar qualche riposo

fra i silenzi in questo orror...

... Dite almeno, amiche fronde,

se il mio ben piú rivedrò;

ah! che l’eco mi risponde,

e mi par che dica: No.

85 Sugli Endecasillabi punta anche il Fubini nelle fini pagine dedicate al Rolli nella sua Introduzione ai Lirici del Settecento, Milano-Napoli 1959, tutta cosí importante per esempi di osservazioni sui singoli lirici e sui motivi centrali dello sviluppo arcadico successivo (ad esempio per il rapporto tra canto e figura).

86 Alla Maratti scriveva nel 1732: «e coloro dicono che io son degenerato? son degenerato ora che mi veggono piú ne’ grandi antichi nostri, che ho continuamente per le mani per propria professione nonché per diletto?» (G. Galli, Nel Settecento. I poeti G.B. Felice Zappi e Faustina Maratti, Bologna 1925, p. 111).

87 Va calcolata poi nell’acquisto di scioltezza e di dominio nel verso non canzonettistico (ma a cui l’uso delle canzonette e dei versi brevi aveva dato una ricchezza di cadenze e di suoni) la traduzione in sciolti del Paradiso perduto compiuta fra il 1717 e 1735 e fortemente fedele al testo.

88 Le «candide mani», il «candido seno» sono legati anche ad un costume che isolava ed evidenziava quei punti essenziali della bellezza femminile, e passarono con la loro suggestione fino al Leopardi che proprio nel Risorgimento, cosí significativamente echeggiante di Arcadia, rilevava con nuovo fremito la «candida ignuda mano» e il «bianco petto».

89 Questo gustoso opuscolo parte da una profonda antipatia per l’individualismo misantropico, da un vivace senso della socievolezza basata sull’amicizia e sull’amore, da un edonismo non volgare («la natura, che ci è stata in tutto matrigna, ha voluto compensare con le dolcezze dell’amore le miserie che ci tormentano») che esalta appunto le dolcezze dell’amore fino a quello degli «estremi contenti», i quali vengono descritti con verità spregiudicata, ma estremamente garbata e gentile, e di cui ogni piú elevato rapporto con le donne è considerato come «preludio» animatore ed eccitante. È in tal senso documento interessante di un atteggiamento tanto piú libero e spregiudicato rispetto alle mescolanze platoniche-edonistiche di primissimo Settecento ed è insieme documento interessante di una prosa che, pur partendo dalle «cicalate» accademiche dell’Arcadia cruscante, si muove ormai in moduli tanto piú freschi, rapidi, disinvolti. La citazione da quest’opuscolo come quelle dalle poesie è tratta dal volumetto Rime e Prose di Tommaso Crudeli, Parigi (ma in realtà Pisa) 1805, p. 148.

90 Il Crudeli si applicò anche alla riforma del teatro comico traducendo Le glorieux del Destouches e munendolo di una prefazione non priva di interesse per le sue istanze di tipo pregoldoniano.

91 La figura del villano di buon senso fu cara al Settecento e il Goldoni e il Casti ne fecero tema dei loro omonimi drammi giocosi. Sulla stessa prospettiva di ricavare divertimenti da un materiale tradizionale di «motti» e «astuzie» puntò anche G.C. Becelli con il suo poema giocoso Il Gonnella (Verona 1739), noiosa messa in azione delle beffe e grossolane sentenze del noto buffone. Del Becelli è anche un tentativo (rimasto al primo canto) di un poema avventuroso e «piacevole», La gazzera, inserito significativamente nel Trattato della novella poesia come prova della possibilità di far nuovamente vivere antichi generi della poesia italiana del nuovo tempo.

92 Alla sua ultima carica di segretario di Propaganda Fide si lega un’opera stampata, ma non pubblicata, Memorie intorno alle missioni in Africa, Asia e Armenia estratte dall’Archivio di Propaganda Fide, che meriterebbe pubblicazione come prova delle qualità del prosatore.

93 N. Forteguerri, Ricciardetto, Venezia, Zatta, 1789, II, Premessa dell’editore. È l’edizione da cui riporto i passi citati del poemetto. Una «chiave» allegorica del poemetto (trovata in un esemplare dell’editio princeps) mostrerebbe poi l’intenzione del Forteguerri di adombrare in alcuni personaggi uomini della corte papale e persino (in Carlo Magno) il papa Benedetto XIII.

94 Ricciardetto, canto I, str. 33.

95 Ricciardetto, canto V, str. 62-63.

96 Ricciardetto, canto XVII, str. 79.

97 Il testo manoscritto inviato al Bodmer fu pubblicato a Zurigo da questo teorico svizzero e cosí fu immesso nella piú vasta discussione europea utilmente presente piú tardi nella nuova proposta di poetica teatrale del grande Lessing.

98 Il Calepio fu anche autore di uno scritto, Descrizione de’ costumi italiani (edito ora da S. Romagnoli, Bologna 1962, e prima noto nella versione francese del Seigneux), molto interessante per le note di autocritica (abusi delle «cerimonie», decadenza delle virtú militari, dissolutezza dei nobili, ecc.), ma anche per la consapevolezza di una netta ripresa dell’Italia in sede culturale e letteraria.

99 Fra i suoi scolari e seguaci nella tragedia grecheggiante il piú noto è Giuseppe Salío, estremo avversario di ogni deviazione dal classicismo puro e aristotelico nel suo Esame critico intorno a varie sentenze di alcuni rinomati scrittori di cose poetiche (Padova 1738).

100 Ulisse il giovane ha ucciso, inconsapevole, il padre e ha sposato la figlia e perciò si acceca (mentre la figlia si uccide e il figlio viene trucidato), verificando la volontà del fato che intendeva cosí punire una infedeltà di Ulisse il vecchio a Penelope.

101 Si legge in Raccolte di tragedie scritte nel secolo XVIII, Milano 1825, vol. II.

102 Il Lazzarini era cosí preso dal problema della coincidenza fra unità di tempo (un sol giorno) e verisimiglianza di tanti avvenimenti in quel breve giro di tempo che il finale della tragedia si precisa come riprova di tale riuscita impresa, di tale lezione applicata: «Cosí volge Fortuna / ogni umana grandezza in un sol giorno», che pur può interpretarsi, per altro verso (tanto andrebbe calcolata la incidenza di posizioni ideologiche anche nella letteratura arcadica), come espressione di un rigore di tipo giansenistico (filogiansenista fu appunto il Lazzarini).

103 Tanto piú chiara è la perdita di ogni afflato drammatico nelle tragedie bibliche e cristiane che magari curiosamente riportano, in controluce, alla satira del cicisbeismo (la doppia corte di Giacobbe nella Rachele) e alla leggiadra costumatezza arcadica.

104 Esempio di modi particolari della «prudenza» e del «decoro» arcadico nel riprendere piú direttamente nella «tragedia» (non nel melodramma cui quel sentimento appariva piú pertinente) lo sviluppo centrale della passione amorosa può essere la Didone del bolognese Giampietro Zanotti Cavazzoni, che non riesce viceversa a svincolarsi dall’attrazione – anche se piú irrigidita e lineare – della «perplessità» melodrammatica cosí poeticamente efficace nell’opera metastasiana e singolarmente – per esigenze moralistiche – immagina non avvenute le «nozze» fra Didone ed Enea (Didone parla solo della «promessa data / d’accorre Enea nel vedovil mio letto»), sicché nel finale il sacerdote potrà profetizzare la ricongiunzione, in Eliso, fra Didone e il marito Sicheo.

105

Ifigenia:

E che a me stanza chiusa e solinga in nave

darassi.

Oreste:

E che? il germano dalla suora si pave?

Ifigenia:

No, diasi; ed io soletta con Nicia e con la Dea,

abiti il chiuso loco sino alla piaggia Achea.

Oreste:

Diasi.

Ifigenia:

E che da un pertugio sol rimirando il polo,

possa, quando a me piaccia, favellare a te solo.

Oreste:

A me solo? e all’amico?

Ifigenia:

No, no; a te sol.

(Ifigenia in Tauris, Atto V, scena ultima)

106 Non solo il Palamede, ma tutte e cinque le tragedie affrontano argomenti importanti e impegnativi da un punto di vista etico-civile e religioso. E nel tessuto di fatti tragici che investono problemi dei rapporti fra politica e religione (Palamede), fra sete di potere e giustizia (Servio Tullio, Papiniano), fra potenti e popolo (Appio Caudio), sarebbe facile reperire una messe di gravi sentenze dolorose e sdegnate che spiccano per energia persuasa nella moralità e nella problematica del tempo. La filosofia della «luce» dell’«illuminante» Gravina, il senso austero e disperato della coscienza virtuosa, intransigente, eroicamente innocente, la tentazione della solitudine contro la contaminazione della scellerata realtà e l’opposto timore di un ozio e di un’astensione dagli impegni, premono fortemente in tutta la tragedia graviniana e ne fanno comunque un documento essenziale per la valutazione morale e ideologica di quella forte e singolare personalità.

107 Seguiamo l’edizione: C. Gravina, Tragedie cinque, Napoli 1717.

108 Il Gravina tragico ebbe imitatori e seguaci (a parte il piú complesso rapporto con lui del Conti e dello stesso Metastasio) nell’Italia meridionale, ma si tratta di scrittori di scarsissimo rilievo artistico (eppur considerabili anch’essi sul piano di un teatro didascalico animato da istanze ideologiche, morali e politiche) come Saverio Pansuti e Annibale Marchese che volse il didascalismo graviniano ad una forma di seria apologia della religione cristiana nelle sue dieci Tragedie cristiane in polemica con i drammi sacri barocchi ibridi di goffa sublimità e di bassa comicità.

109 Né si dimentichino, sul piano della riconquista di un teatro piú serio, culturale e pur «teatrale», le indicazioni persino sceniche che il ferrarese Girolamo Baruffaldi premise alla sua infelice tragedia Giocasta la giovine (Venezia 1737) o le considerazioni sulla recitazione della stessa colta attrice Elena Balletti Riccoboni nella sua Lettera al Conti (in Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, XIII, Venezia 1736) in un ambiente settentrionale dominato dalla personalità del Maffei.

110 Qualcosa di piú complesso di quel «contraffare le forme correnti del favellare» che il Martello aveva cercato nel suo verso costruito sull’esempio dell’alessandrino francese.

111 Esplicitazione dell’idillismo di fondo della pur seria situazione e impostazione della Merope è il monologo di Egisto (Atto IV, sc. 3) che rimpiange e vagheggia, in mezzo alle peripezie della situazione in cui si trova alla corte di Polifonte, il «viver dolce» del «pastoral ricetto» in cui prima aveva vissuto, e persino il suo «caro letticciuolo» e il «soave sonno» di cui prima godeva.

112 Ne dette notizia il Croce nel «Giornale storico della letteratura italiana», 1898, e ne riportò parti E. Petraccone nel suo volume La commedia dell’arte, Napoli 1927.

113 L.A. Muratori, Della perfetta poesia italiana, ed. cit., III, p. 93.

114 Il motivo centrale è culturalmente e storicamente interessante nel trapasso di mentalità e costume cui la letteratura arcadica collaborava, ma poeticamente rimane piuttosto cerebrale e troppo affidato alle sole qualità dei contrasti di linguaggio e di scherzi aneddotici e poco incisivi sul fondo di quello stesso trapasso di civiltà.

115 G. Arteaga, Prefaz. al I vol. delle sue Rivoluzioni del teatro musicale in Italia, Venezia 1785, p. XIX.

116 Rifluire di vita contemporanea che non si trova invece in commedie pure per letterati, ma flosce e fittizie, come è il caso, ad esempio, della commedia di G.C. Becelli, L’ariostista e il tassista, che, pur interessante per la querelle tra fautori dell’Ariosto e del Tasso e per una preferenza ariostesca motivata alla luce di una nozione della poesia antiregolistica, naturale, specchio della vita nella sua varietà, si svolge in una insipida rappresentazione della discesa dei due contendenti all’averno dove tutti e due vengono posti in catene e liberati poi purché non si occupino piú di poesia.

117 Oltre alle opere qui e altrove citate, si ricordino anche il poemetto sacro Gesú, il poema epico incompiuto Carlo Magno e un romanzo satirico in ottave, Il Radicone.

118 P.J. Martello, Scritti critici e satirici, a cura di H.S. Noce, Bari 1963, pp. 336-337 e 338.

119 Si noti come il Martello volesse cosí – facendo vincere il concorso poetico da un madrigale petrarchistico scritto proprio dal Marino, oggetto della piú dura polemica arcadica contro il malgusto barocco – ironizzare la sicurezza arcadica di aver rotto per sempre con il Seicento, se poi il Marino – la cui potenzialità poetica il Martello aveva difeso nel Comentario – poteva essere in grado di passare per petrarchista alla moda.

120 Come egli dice in una bella pagina (Opere, Bologna 1723, IV, pp. 157-159) che il Croce citò (in Poesia popolare e poesia d’arte, Bari 1933, pp. 508-509) a riprova della persistenza del fascino della commedia dell’arte – malgrado la condanna dell’Arcadia – ancora nel Settecento.

121 Inoltre il Maggi scrisse l’atto Il concorso de’ Meneghini e vari intermezzi teatrali, oltre a piú irrilevanti melodrammi, tragedie e rappresentazioni sacre.

122 «Smettete questa anticaglia, o miei ragazzi: un tempo aveva del buono, adesso è un’altra faccenda; invece di far ridere, fate sbadigliare. Ho sentito dire una volta che dagli antichi sono lodati piú del giusto i motti salaci di questo commediografo, e detti da voi mi paiono scempiaggini. Perché mai? È un grande Plauto, ma fuori dal suo latino non pare piú quello; e voi ragazzi, col sonare male quel flauto, alle nostre orecchie lo fate sembrare uno zufolo. E poi quei passeretti (sbaglio), quei parassiti, quegli schiavi, quei pasticci che si reggono con le grucce, adesso sono troppo lontani dalle nostre usanze e si leggono soltanto come squisitezze. Se non tocchiamo il nuovo, quanto al proposito di far ridere siamo bell’e fritti» (riporto il testo e la traduzione dall’edizione critica del Teatro milanese del Maggi, a cura di D. Isella, Torino 1964, 2 voll.).

123 Egli, come Fabio e altri personaggi maschili, parla «in lingua» e ciò accresce, nel contrasto col dialetto di Meneghino e il dialetto italianizzante di Quinzia, il gusto efficace dei livelli di linguaggio a cui certo il Maggi mirò con notevole intenzione artistica.

124 «O mio caro padroncino, che cosa vi ha fatto questo servitore fedele che vi par poco condurlo con crudeltà a farsi bucare i sacchetti delle cervella? Volete mandarmi al fuoco di tutti quanti gli inverni?... E io l’ho detto apposta perché ci facciate un pensiero. Vi dispiace di farmi perdere l’anima mia e non pensate alla vostra?... No, che non voglio tacere. Griderò sempre contro questa nefanda usanza maledetta. Essa toglie gli spiriti piú nobili al principe e a Dio con questa viltà che pare valore. Sí, proprio, viltà di non avere coraggio di lasciare chiacchierare queste teste matte. Dicono spropositi che non ne dice di tanto grossi l’Accademia vicina a San Calocero» (dalla citata edizione, con traduzione in lingua, di D. Isella).

125 Nato a Siena il 14 ottobre 1660, il Gigli (nato Nenci, aveva preso il cognome da un lontano parente che lo aveva lasciato erede di un grosso patrimonio) passò la sua vita fra Siena e Roma in una irrequieta ricerca di sistemazioni pratiche che gli permettessero di supplire alla giovanile dilapidazione del patrimonio ereditato, al suo genere di vita spendereccio e ai bisogni della numerosa famiglia cui solo in parte provvedeva la moglie Laurenzia Perfetti, da lui ritratta come avara e bacchettona nella Sorellina di Don Pilone. Perduto il posto di lettore di «toscana favella» a Siena, a causa del Don Pilone, passò a Roma come precettore in casa Ruspoli con un intervallo di confino a Viterbo, nel 1717-1718 (e qualche breve soggiorno a Siena), a causa della burrasca suscitata dal Vocabolario cateriniano che provocò anche la sua espulsione dalla Crusca e dall’Arcadia.

126 Nella Sorellina di Don Pilone Geronimo (prestanome del Gigli) appena arriva a Siena cerca anzitutto un tavolino per mettersi a scrivere!

127 La sua pubblicazione fu interrotta nel 1717 alla lettera R. Riedito interamente nella edizione delle Opere, II, L’Aja (ma Lucca) 1797, venne ripubblicato dal Fanfani, Firenze 1866.

128 Come l’ordine che Buonafede dà al fabbro vicino alla sua casa di foderare di feltro i martelli e l’incudine per non interrompere i placidi sonni di Don Pilone o la battuta di Dorina che esagera la gelosia di Don Pilone nei riguardi di Elmira sino alla sospettosa ricerca del sesso della mosca che si fermi sul volto di quella.

129 Nato a Firenze nel 1660, di modeste condizioni, il Fagiuoli passò la vita a procurarsi piccoli impieghi pubblici o presso nunzi apostolici (in Polonia nel 1690) o presso il cardinale Francesco Maria de’ Medici a Roma e a Firenze, o presso Ferdinando e Gian Gastone de’ Medici e poi presso il nuovo granduca lorenese, per sostentare la numerosissima famiglia. Morí nel 1742.

130 E anche nelle commedie piú tarde il Fagiuoli non rinunciò mai (e forse addirittura li accrebbe) agli effetti comici dei modi di dire popolari spesso accumulati con un procedimento che ricorda il Giusti dell’Epistolario: «Voi siete nata vestita, avete tre pan per coppia; vi vien la Pasqua in domenica, vi casca il cacio sui maccheroni, vi piove lo zucchero sulle fragole, fate diciotto con tre dadi» (Commedie, Firenze 1834-1838, V, p. 281).

131 Nato a Siena o nel contado senese nel 1673, il Nelli passò la sua giovinezza a Siena nel gruppo di amici del Gigli (Benvoglienti, Brancadori, Sergardi), finché nel 1702 passò a Roma dove rimase (alternando soggiorni senesi piú lunghi nei primi anni) come precettore dei principi Strozzi, frequentando Gigli, Forteguerri (la colonia toscana a Roma) e i circoli arcadici. Nel 1720 passò a Firenze e poi si ritirò nella sua villa di Castellina in Chianti. Morí a Siena nel 1767.

132 Commedie, a cura di A. Moretti, 3 voll., Bologna 1883-1889, II, pp. 257-259.

133 Commedie, ed. cit., I, p. 10.

134 Cfr. Commedie, ed. cit., I, p. 228.

135 Commedie, ed. cit., I, p. 232.

136 Commedie, ed. cit., II, p. 226.

137 Si ricordi che nel Prologo dell’Euridice del Rinuccini parla la «tragedia», mentre nei libretti di pieno Seicento (ad es. nella Favola di Orfeo dello Striggio) nei prologhi parla la «musica» che si propone come la protagonista delle opere. Per l’origine «poetica» del melodramma mi riferisco al finissimo saggio di L. Ronga, La nascita del melodramma dallo spirito della poesia, in Arte e gusto nella musica, Milano-Napoli 1956.

138 Cfr. G.M. Crescimbeni, Istoria della volgar poesia, Venezia 1730, VI, p. 107.

139 Cfr. P.J. Martello, Del teatro antico e moderno, Roma 1715, pp. 158-160. «Una cosa è da condannare, ed è il tuo giudicio, e di tutti quelli che intervengono al melodramma, con l’erronea presunzione che la poesia faccia in esso la prima figura».

140 L.A. Muratori, Della perfetta poesia italiana, Milano 1821, III, pp. 65-67, che mettono in chiaro, con movimento gustoso di parodia indignata, l’assurdità della situazione melodrammatica specie dal punto di vista del razionalismo arcadico. «È egli mai verisimile fra le genti che una persona in collera, piena di dolore e di affanno, o narrante seriamente e daddovero i suoi negozi, possa cantare?... Ma che piú ridicola cosa ci è di quel mirar due persone che fanno un duello cantando? che si preparano alla morte o piangono quanche fiera disgrazia con una soave e tranquillissima arietta? che si fermano tanto tempo a replicare la musica e le parole di queste canzonette allorché il suggetto porta necessità di partirsi in fretta e di non perder tempo in ciarle?».

141 L.A. Muratori, Della perfetta poesia cit., p. 58. Solo nell’ultima parte del capitolo affiora un margine di concessione simile a quella del Martello, con una volontà di riforma parziale del meodramma ridotto a forma piú verisimile ed organica, ma pur sempre lasciato alle sue condizioni di componimento marginale nel raggio della riforma arcadica, ché in esso, con le parole e con i versi, si serve «alla musica, giacché in siffatti componimenti essa principalmente si cerca e si approva», diversamente dalla vera tragedia e commedia senza musica in cui la poesia è «non serva, ma regnante» (pp. 79-80).

142 Si ricordi almeno in tal direzione la caricatura del cantante che canta a bocca socchiusa, coi denti stretti e che «insomma farà il possibile perché non s’intenda neppure una parola di ciò che dice, avvertendo ne’ recitativi di non fermarsi né a punti, né a virgole», e che «essendo in scena con altro personaggio, fino che quegli parla seco per convenienza del dramma o canta una arietta, saluterà la maschera ne’ palchetti, sorriderà co’ sonatori, con le comparse, etc., perché il popolo chiaramente comprenda essere egli il signor Alipio Forconi musico, non il principe Zoroastro, che rappresenta» (B. Marcello, Il teatro alla moda, prefazione e note di A. D’Angeli, Milano 1956, p. 28).

143 A. Zeno scrisse le biografie del Manuzio, del Sabellico, del Davila, di G.B. Guarini, le Dissertazioni vossiane, una Storia cronologica universale di tutti gli italiani poeti sino a’ nostri giorni, rimasta inedita, come inediti rimasero tre volumi di storia veneziana. Avendo progettato una raccolta di storici italiani, passò il materiale raccolto al Muratori quando seppe del lavoro simile cui questi attendeva. Curò anche la terza parte dell’Eloquenza italiana del Fontanini e aggiunse quattro volumi al Mappamondo istorico di Antonio Foresti.

144 Lettera riportata nell’edizione dei suoi Drammi scelti, a cura di M. Fehr, Bari 1929, pp. 278-281. In quella, significativa è appunto l’esemplificazione di soggetti drammatici tolti dalla vita di regnanti e di eroi e dai loro esempi virtuosi e magnanimi: «o maturità di consiglio ne’ dubbi affari, o magnanimità di perdono nelle offese sofferte, o moderazione ne’ tempi prosperi, o fortezza ne’ casi avversi», o «memorabili esempli o di costante amicizia o di amor coniugale, o di man forte a sollievo degli innocenti, o di cuor generoso a ristoro de’ miserabili...».

145 E in un’altra importante lettera al Gravisi, del 3 novembre 1730 (in Drammi scelti, ed. cit., pp. 275-277) egli chiarirà ancor meglio il suo tentativo di «regolamento» dei drammi per musica di per sé «irregolari», contrapponendosi soprattutto ai difetti derivati dalla «poca avvertenza del poeta, che non conserva l’unità dell’azione, non la conformità dei caratteri, non il decoro della scena tragica, non il buon costume a purgazione degli affetti, non il movimento di questi a compassione o a terrore, non le convenienze di un viluppo e di uno scioglimento alle buone regole accomodato».

146 Cfr. Tutte le opere di Pietro Metastasio, a cura di B. Brunelli, Milano 1943-1954, IV, p. 585.